Da molto lontano – Roberto Costantini

SINTESI DEL LIBRO:
I due cowboy si fronteggiano nello spiazzo polveroso sotto l’occhio
caldo del cielo blu, le braccia distese lungo il fianco, le mani accostate
al calcio delle pistole che sporgono dalle fondine. Rock Hudson e
Kirk Douglas si scambiano gli ultimi sguardi. Michelino sa che Kirk è
andato al duello decisivo con la pistola scarica. Lo sa perché è lui
Kirk, e l’ha scaricata di proposito. La scena cambia. Adesso è notte.
Sul mare, i due contendenti, uno sul motoscafo e l’altro sul
gommone, impugnano le pistole. Quello sul gommone spara. Un
colpo, due, tre. Mike è sul motoscafo. I proiettili gli attraversano il
corpo, escono senza sangue né dolore. Risponde al fuoco. Il primo
proiettile fa girare su se stesso e cadere in ginocchio l’altro, che si
appoggia al tubolare del gommone cercando di rialzarsi. Si rimette in
piedi, barcollando. Mike spara il secondo colpo, è il miglior tiratore
dell’Africa intera. Il proiettile attraversa il cuore dell’avversario e ora
Mike sente il dolore che gli dilaga nel petto, il cuore batte sempre più
forte, pompa furioso il sangue al cervello, il fischio lo avvisa che ora
esploderà e il dolore finirà, il fischio si fa più forte, più vicino,
infrange la barriera tra sogno e realtà.
Mi svegliai di colpo, madido di sudore, il cercapersone sul
comodino continuava a trillare. Nella luce del giorno che filtrava
debole nella stanza attraversando le persiane chiuse, allungai il
braccio, la mano tastò tra il posacenere pieno di cicche di Gitanes, la
bottiglia vuota di Lagavulin, la boccetta con i sonniferi, fino ad
arrivare al pulsante del cercapersone.
Provai a spegnerlo, ma lo feci cadere a terra, con l’ottimo risultato
che si spaccò in due e smise lo stesso di suonare. Forse era meglio
così, non avevo nessuna voglia di essere cercato, ma mi tirai su. Il
mio corpo voleva restare a letto, ma la mente era di parere contrario,
e non per senso del dovere, visto che non ero di turno. No,
semplicemente non volevo tornare in quello spiazzo polveroso sotto
il sole, su quel motoscafo di notte, non volevo sparare a Rock Hudson
con la pistola scarica. Ero sempre io: quel ragazzo chiamato
Michelino, Mike, Africa, poi diventato Michele Balistreri,
commissario della Omicidi.
Il lavoro in polizia, prima al commissariato di Vigna Clara e ora
alla Terza sezione della squadra Mobile, avrebbe dovuto essere solo
una breve parentesi. «Per disintossicarti» diceva mio fratello
Alberto. Ma per disintossicarmi dal mio passato ci sarebbe voluta
una medicina che non avevano ancora inventato: un solvente che
facesse sbiadire i ricordi. Guardai l’orologio, le due del pomeriggio.
Mi ero addormentato tardi, nonostante il Lagavulin e il Tavor. Colpa
dei festeggiamenti per la vittoria dell’Italia, rombi di moto, clacson,
gente che cantava.
Notti magiche
Inseguendo un goal
Idiozie senza senso.
Eppure otto anni fa hai festeggiato eccome la vittoria di Paolo
Rossi, Balistreri.
Ecco, quella serata faceva parte della stessa categoria di Kirk e
Rock. Potevi scriverci milioni di cose sulla lavagna della vita. Ma non
cancellare quelle scritte prima.
La testa mi scoppiava. La serata si era prolungata fino a tarda
notte insieme alla giovane moglie di uno dei tanti maschi che
l’avevano trascorsa allo stadio Olimpico e poi a celebrare il successo
degli azzurri in giro per Roma. Io avevo festeggiato con lei nel loro
letto matrimoniale sotto il crocefisso. I mondiali di calcio in casa
erano un’occasione perfetta per me, irripetibile. Le mogli e le
fidanzate abbandonate dai loro uomini per seguire la nazionale erano
un ottimo scacciapensieri.
Temporaneo, ovviamente. Come una nuvoletta sul sole mentre
attraversi il deserto. Ma del resto tutto è temporaneo.
Mi trascinai fino al telefono che avevo staccato appena ero
rientrato quasi all’alba nella mia casa alla Garbatella e composi il
numero della squadra Mobile.
Il mio ufficio, il mio lavoro.
L’ispettore Capuzzo rispose subito, col suo bell’accento
napoletano un po’ rovinato dall’ansia.
«L’abbiamo chiamata anche sul cercapersone, dottore, ma lei…»
«Non ho dormito a casa. E poi non sono di turno.»
«Per fortuna dopo l’estate tutti i dirigenti avranno il telefono
mobile di servizio.»
«Che diavolo sarebbe?»
«Come? Non li ha visti? I nuovi telefoni cellulari senza fili,
tascabili, può portarli sempre con sé ed essere raggiunto dovunque.»
Rabbrividii.
«Ho capito. Me ne avevi già parlato una volta… Meraviglioso… Chi
si è fatto ammazzare di domenica, Capuzzo?»
«Nessuno, dottore. Ha letto del rapimento sul Messaggero questa
mattina?»
«Capuzzo, da quanti anni lavori con me?»
«Otto, dottore.»
«Leggo i giornali?»
«No. Anzi sì, nel 1982 quando ho iniziato a lavorare con lei
durante il Mundial di Spagna…»
«Lascia perdere» lo interruppi.
Non parlavo mai di quei giorni e della mia prima indagine.
Quando una ragazzina venne rapita e uccisa da un assassino mai
catturato. Quella sera sì che ero di turno! Solo che invece di essere in
ufficio me ne stavo a casa di amici a guardare gli azzurri di Bearzot
segnare tre gol e il presidente Pertini esultare.
«Che c’è sul Messaggero, Capuzzo?»
«Sa chi è Prospero Petruzzi, almeno?»
«Almeno?…»
Capuzzo capì che tirava una brutta aria.
«Dobbiamo vederci alla residenza dei Petruzzi. Sa dov’è, vero?»
Certo, sapevo chi era e dove abitava il grand’uomo. Purtroppo non
riuscivo a vivere del tutto fuori dal mondo. Prospero Petruzzi.
Cavaliere del lavoro per meriti sociali. L’ottavo re di Roma.
Cinquantenne, un ex muratore che aveva fatto la sua vera fortuna
iniziando a costruire strade all’estero negli anni Settanta. In quasi
vent’anni era diventato uno degli uomini più ricchi d’Italia. Con i
soldi guadagnati in terra straniera e una rete di amici in politica, si
era messo a costruire quartieri popolari a prezzi impopolari su aree
che quando le acquistava non erano edificabili e poi non si sa come lo
diventavano sempre. Aveva investito i profitti dell’edilizia in tv
private, editoria periodica, esclusive cliniche dove chi gli serviva si
curava gratis, i ricconi a carissimo prezzo e la gente normale non
poteva nemmeno entrare al bar. I politici amavano le interviste in tv
o sui giornali, e quando si ammalavano non volevano certo andare in
quei terribili ospedali pubblici dalle pareti scrostate.
«Sì, Capuzzo. Ci vediamo lì.»
Mi sciacquai la faccia e mi lavai i denti. Poi buttai giù quel nuovo
farmaco.
Col Prozac la vita ti sorriderà.
*
Attraversai Roma sul mio Duetto. Lungo i marciapiedi assolati
c’erano solo sciami di turisti accaldati, affascinati dalla città più bella
e più brutta del mondo. A tutti i balconi, senza eccezione, erano
appese bandiere dell’Italia vittoriosa. La città rendeva omaggio alla
squadra e al “nostro” campionato del mondo di calcio. Ma Italia ’90
era anche e soprattutto una nuova occasione di business per tanta
gente, dai palazzinari come quello da cui mi stavo recando, che grazie
agli appalti miliardari continuavano a farsi ricchi oltre la decenza,
fino agli ambulanti dei chioschi di bibite e panini da vendere a prezzi
stellari. Dalle radio delle auto scoperte uscivano le note del
tormentone dell’estate mondiale.
E il mondo in una giostra di colori
E il vento accarezza le bandiere
Arriva un brivido e ti trascina via
E sciogli in un abbraccio la follia
Erano da poco passate le tre quando arrivai davanti all’imponente
cancellata in ferro battuto. Due P erano intarsiate sulle due ante.
Prospero Petruzzi in quell’abbinamento di iniziali era stato
sfortunato, i suoi genitori non avevano previsto quella bella
cancellata. Intorno, un muro alto due metri e mezzo con i cocci di
vetro sopra, telecamere ovunque, mancava solo il filo spinato.
L’ispettore Capuzzo era già lì, mi aspettava appoggiato a un’auto
di servizio. Il naso lungo sotto i capelli ormai radi, mi venne incontro
fingendo di non vedere i miei occhi rossi e cerchiati, la barba sfatta, i
capelli scarmigliati. Aveva l’aria stupita. Mi indicò la segnaletica
appena dentro il cancello, alle pendici della collina.
VILLA PROSPERO.
VILLA ELIDE.
VILLA UMBERTO.
PISCINA.
SALA CINEMA.
SALA GIOCHI.
«Dottore, siamo a Disneyland?»
Capuzzo era un poliziotto vero, una persona perbene, come la
larghissima maggioranza di chi serviva uno stato sempre più in mano
a mafiosi e faccendieri che facevano affari con i politici. Ma questo lo
sostenevo io, Capuzzo non lo avrebbe mai detto e neanche pensato.
Solerte lavoratore che guadagnava una miseria dopo vent’anni, tutto
lavoro, famiglia e Napoli. Sposato con la compagna di banco, sempre
vestito al risparmio perché un giorno con quel piccolo gruzzolo
avrebbe mandato suo figlio all’università, così non sarebbe rimasto
un ignorante come lui. Parole sue, che ignorante non era.
Sotto l’orrenda camicia a quadri a maniche corte indossava una
maglietta azzurra con la scritta DIEGO infilata nei pantaloni a zampa
d’elefante fuori moda e di velluto, neanche fosse inverno.
«Allora, cosa c’è sul Messaggero, Capuzzo? Hanno rapito
Maradona per non farlo giocare contro l’Italia?»
Lui mi rivolse un’occhiata di riprovazione. Perché non si scherza
con Capuzzo sul lavoro. Ma soprattutto perché non si scherza con
Capuzzo su Maradona.
«Dottore, stamattina è uscito un articolo con l’occhiello in prima e
il rimando in cronaca a proposito del figlio di Petruzzi. Ieri nel tardo
pomeriggio è arrivata in redazione una lettera anonima: Umberto
Petruzzi è sparito. Fuga o rapimento?»
«Ho capito, ma per una lettera anonima non potevi venire qui
senza di me e lasciarmi dormire in pace?»
Lui si strinse nelle spalle.
«Il capo della squadra Mobile ha ricevuto una segnalazione dalla
procura, mi ha detto che doveva venirci lei.»
«Chi è il giudice che ha fatto la richiesta?»
«Non ci sono più i giudici istruttori, dottore. Ricorda? Dall’anno
scorso il loro ruolo lo svolgono i pubblici ministeri. O pm,
abbreviato.»
Capuzzo aveva mille pregi e il difetto della pignoleria.
«Va bene. “Pm” come pizza margherita. Allora, chi è?»
Capuzzo fece una smorfia eloquente.
«Locatelli, quello che hanno mandato giù da Milano. Uno che odia
i meridionali. Pare che abbia aderito alla Lega Nord.»
Conoscevo superficialmente Mirko Locatelli. Era arrivato a Roma
da poco e non avevamo mai lavorato insieme, ma ci eravamo
incontrati durante le riunioni periodiche di aggiornamento tra
funzionari della Mobile e pm. Aveva fama di duro, uno di quei
magistrati inflessibili che al Nord aveva cominciato a indagare sul
connubio tra politici e imprenditori. Quelli che i vecchi magistrati
chiamavano con malcelato disprezzo “sceriffi”. Forse era per questo
che lo trovavo anche simpatico, nonostante il fatto che ogni volta
cercasse di convincermi a aderire al nuovo partito a cui era iscritto.
Io gli ricordavo che essendo nato e cresciuto in Africa ero il più
meridionale dei meridionali e lui scuoteva il capo.
«Ho letto il tuo curriculum, Balistreri. Tu sei come me, non ti
fermi mai davanti ai potenti.»
Era una frase superficiale e neanche vera. Altrimenti non avrei
offerto a quel delinquente di mio padre la possibilità di sparire per
sempre dall’Italia e dalla mia vita invece di sbatterlo in galera come
meritava. Ma sapevo che Locatelli, pur con la sua visione del mondo
rozzamente schematica, almeno era onesto.
Mi chiesi se fosse stato lui a chiedere il mio intervento. Forse no.
Forse il capo della procura aveva letto l’articolo, probabilmente dal
ponte di una barca ancorata a Porto Ercole. Leggendo il nome di
Petruzzi era saltato sulla sedia e si era fatto rintracciare il capo della
squadra Mobile che era sul ponte di un’altra barca dall’altro lato del
porto. Quell’articoletto sciocco li aveva preoccupati solo perché
riguardava uno degli uomini più ricchi d’Italia.
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