Coraggio! – Gabriele Romagnoli

SINTESI DEL LIBRO:
A Natale del 2015 la donna che considero una seconda madre (il
suo nome è Franca) mi ha fatto un regalo inaspettato. Non era
impacchettato, non aveva fiocchi o coccarde. Si presentava come un
astuccio di pelle rossiccia consumato dal tempo. Di forma
rettangolare, recava impresse le iniziali FC. Mi è stato porto come se
fosse fragile, come se contenesse qualcosa di prezioso, e così era:
conteneva una storia. L’ho aperto facendo scattare un bottoncino e
ho visto, adagiata su velluto rosso, una piccola targa (o una grossa
medaglia, dipende) in bronzo, anch’essa rettangolare. L’immagine
scolpita era quella di un angelo (di sesso decisamente femminile)
che incoronava d’alloro un uomo, nudo e inginocchiato. L’iscrizione
in alto diceva: “Aux Héros de la Civilisation”, agli eroi della civiltà. In
basso, un nome (o meglio, un cognome) e una data: “Sacco (A)
1936”. La signora Franca sembrava commossa. Ha cominciato a
parlare di quello che lei chiamava “premio Carnège”, alla francese.
Ho girato la piccola targa e in effetti c’era scritto: “Fondation
Carnegie 1909”. Sotto: il profilo di Andrew Carnegie.
Il suo nome ti dirà qualcosa, soprattutto se sei appassionato di
musica e hai ascoltato un concerto alla Carnegie Hall di New York. È
stato uno degli uomini più ricchi non solo del suo tempo, ma della
Storia. Il suo patrimonio, convertito in valuta odierna, ne farebbe
ancora uno dei primi cinque della classifica di “Forbes”. Era un
immigrato: andò dalla Scozia agli Stati Uniti, di cui divenne cittadino,
e cominciando a lavorare umilmente fece fortuna. Dicono che Walt
Disney si sia ispirato a lui per il personaggio di Paperon de’
Paperoni. Ma, a differenza di Paperon de’ Paperoni, Carnegie non
era avaro. Arrivato a sessantacinque anni vendette tutte le sue
attività e si dedicò a due occupazioni: la scrittura e la filantropia.
Amava le parole, ma ancor più i gesti. Sul retro della medaglia, sotto
il profilo, era scolpita la scritta “Omaggio di un cittadino americano
per ricompensare gli atti di coraggio compiuti in Francia”. Fondazioni
gemelle esistono anche in altri Paesi europei, tra cui l’Italia.
Premiano ogni anno chi si è distinto per valore e generosità. Nel
1936, Oltralpe, toccò a Sacco (A).
Antonio, si chiamava. Questo la signora Franca ricordava. E poco
più: era un suo prozio. Emigrato, era partito da Torino per trovare
lavoro in Francia, a Carcassonne, lei credeva. Nel 1936 la famiglia
italiana aveva ricevuto notizia della sua morte, in circostanze non
chiare che lei, allora una bambina di sette anni, non sapeva
ricostruire. La sorella e la nipote di Antonio – rispettivamente, sua
nonna e sua madre – erano partite per il funerale e l’avevano portata
con loro, ma solo fino alla frontiera. Lì il doganiere eccepì che
occorreva un permesso del padre per fare uscire dal Paese la
piccola, altrimenti poteva configurarsi un tentato rapimento. Mentre
mamma e nonna cercavano invano di convincere l’uomo alla
frontiera, lei vide un cane e si mise a giocare felice.
“Lasciatemela per due giorni, ci pensiamo io e mia moglie. E il
cane,” propose il doganiere. Erano davvero altri tempi, di divieti e
fiducia oggi dimenticati come la vita di Antonio Sacco. Mamma e
nonna andarono e due giorni dopo tornarono, con quell’astuccio di
pelle rossiccia. Lo zio Antonio, pareva, era morto da eroe.
Come?
Sua nipote, ora più che ottantenne, ha scosso la testa. Non lo
sapeva. La mamma non lo aveva raccontato, o lei era troppo piccola
per ricordare. Aveva fatto qualcosa, un atto di coraggio, ma quale?
Era stato un eroe della civiltà, ridotto a un’iniziale appena. Il suo
gesto dimenticato valeva la corona d’alloro di un angelo sul capo di
un uomo nudo, inginocchiato, umile, un emigrato tra migliaia, travolto
dal tempo.
Lì è nata non l’idea, ma la necessità, almeno per me, di questo
libro. Perché, se usiamo l’intelligenza, ogni volta che cominciamo a
scrivere dubitiamo di quel che stiamo facendo e lo mettiamo in
discussione: sarà davvero, se non importante, almeno opportuno
farlo? Poi ci sono le storie necessarie, come questa.
Viviamo nell’epoca della paura. Si pubblicano con successo libri
che hanno la parola PAURA in copertina a caratteri cubitali. Si
dedicano inchieste giornalistiche alla “paura tra la gente”. Tu leggi e
ti lasci contagiare, annulli il viaggio a Vienna, Amsterdam o Istanbul,
dimenticando la storia di quel personaggio che vede la morte tra la
folla e per evitarla fugge a Samarcanda, dove la morte lo aspettava
(pensando che non sarebbe mai arrivata perché aveva preso un
biglietto per Istanbul, Amsterdam o Vienna, invece). Questo è un
libro sul coraggio, a lettere minuscole, sull’umiltà di quelli che l’hanno
dimostrato, sul senso civico e del dovere, sulla qualità dell’essere
umano.
È un’orazione civile, un’invocazione sommessa e proprio per
questo più forte, nel nome di un uomo che alla fine aveva solo
un’iniziale (A), quella giusta per cominciare.
Ho cercato di ricostruire la sua storia partendo da Parigi, perché a
Parigi sarei dovuto comunque andare per parlare di coraggio.
Parigi conta, nella mia storia e nella tua, conta in quella di tutti. La
mia famiglia ha due rami: uno ha fatto soffrire e l’altro ha sofferto.
Non direttamente collegati, almeno non in apparenza. Nel ramo che
ha sofferto si contano quattro fratelli, di cui uno ucciso nel campo di
concentramento di Mauthausen in cui sono stato, decenni dopo,
ritrovandomi a pensare: fossi dovuto capitare qui, meglio come
vittima che come aguzzino, per quante volte rinascessi e finissi qui,
sempre come vittima piuttosto, aguzzino mai, ma provando perfino
una forma di pietà per chi non poteva essere redento da nessun
futuro. Un secondo venne torturato ed evirato dai nazisti, poi sposò
una dolce astrologa di nome Stella. Un terzo fu incarcerato per anni
nelle galere fasciste. Il quarto riuscì a fuggire in Francia e trascorse il
resto della sua vita a Parigi, non tornò più, convinto di aver trovato
un posto migliore e che non avrebbe mai più sofferto un regime.
Forse si illudeva, certo amava la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza.
Non pensò mai di essere scappato, ma di avere scelto. Non
considerò mai una colpa l’essere sopravvissuto, indenne. Amò la
sua piccola moglie francese, fece la sua umile vita, destinando
l’intelligenza a lavori manuali. Abitò in una casetta di periferia, tre
stanze una nell’altra. Rise molto. Lesse. Morì. Non salvò nessuno.
Tranne me. Mi insegnò l’amore per la libertà, il diritto di andare a
prendersi quel che si desidera laddove cresce, il rispetto per gli altri,
purché gli altri rispettino te. Amava Parigi perché in Parigi si
rispecchiava, e io con lui.
Quando arrivo a Parigi, invece di andare direttamente all’archivio
dove spero di trovare la verità sulla fine di Antonio Sacco mi faccio
portare al Bataclan. È il locale attaccato dagli assassini dello stato
islamico venerdì 13 novembre 2015. Nella sua sala concerti sono
state uccise ottantasette persone. Tra queste, una giovane donna
italiana di nome Valeria Solesin. Le cronache del massacro, le
testimonianze degli amici, seppur confuse, la raccontano così:
all’arrivo dei terroristi, quando cominciano gli spari, Valeria e il
fidanzato si sdraiano, faccia a terra, per evitare i colpi ad altezza
d’uomo. Restano in questa posizione per quasi un’ora, il volto sul
pavimento dove comincia a scorrere il sangue delle vittime,
respirando piano, con il cuore all’impazzata, tenendosi per mano.
Poi, dopo un tempo tendente all’infinito trascorso senza sapere che
cosa fare, lei si alza e corre verso l’uscita, cercando la salvezza. È a
quel punto che viene colpita da una raffica e la sua vita finisce.
Mi domando: qual è la fase più tremenda della sua breve
esistenza? Secondo me è l’ora trascorsa faccia a terra, sentendo i
colpi d’arma da fuoco, le urla, l’odore della morte altrui, l’ora con la
paura dentro a divorarla. Poi c’è il minuto in cui si alza in piedi e ci
prova, corre verso una possibile salvezza. Purtroppo non ci riesce,
ma in quel breve spazio di tempo torna a vivere da essere umano.
Perché gli esseri umani non sono nati per vivere faccia a terra, si
sono evoluti dalle proprie origini animalesche alzandosi in piedi, su
due gambe, lo sguardo rivolto alla luce. Se cediamo alla paura
vivremo la vita faccia a terra, respirando polvere e, nell’incertezza
del futuro, negandoci anche il presente. Se ci alziamo e corriamo
verso quel che desideriamo (la vita stessa) non abbiamo alcuna
garanzia di riuscirci, ma di certo affermeremo la nostra dignità, il
nostro diritto a esistere nel solo modo possibile: su due gambe,
faccia verso la luce. Credo che quelli che ti stanno dicendo il
contrario, ossia di vivere con la paura dentro e la faccia a terra,
siano in malafede e non abbiano veramente interesse a sconfiggere
chi attenta alla libertà di tutti sparando nelle sale concerti. Ne hanno
bisogno, invece: sono il loro nemico, ma anche il loro alleato. Gli uni
consentono agli altri di esistere, a spese delle nostre vite stritolate
dalla paura.
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