Come un animale – Filippo Nicosia

SINTESI DEL LIBRO:
La Panda dell’agente immobiliare procedeva lenta sulla statale verso
Manziana. Dal finestrino scorreva un paesaggio anonimo di campi
abbandonati, capannoni dismessi, case coloniche e ville appena
costruite che sembravano barche col motore in avaria nel mare calmo
delle colline. Dietro un grosso muro di cinta abbiamo costeggiato
una fi a vegetazione di antenne trasmi enti sovrastate da una croce
gigantesca, piena di lucine. La radio ha cominciato a perdere il
segnale, e nel fruscio disturbato si è fa a largo la voce metallica di
una donna che recitava il rosario.
Ho alzato lo sguardo convinto che fosse giunta la fine del mondo.
Ero preparato, il mondo mi sembrava aver fa o abbastanza per
meritarsela. Invece erano soltanto uccelli. Uno stormo enorme che
disegnava indecifrabili macchie grigie tra le stru ure in ferro e la
trama dei fili ele rici che sezionavano l’azzurro. Assomigliava a una
danza. La coreografia era fluida e armoniosa, componeva forme
indefinite in una sequenza che si ripeteva in loop come dentro al
cestello di una lavatrice. Spesso, quando finivo di correggere i
compiti o preparare le tracce dei temi, andavo a fare il bucato alla
lavanderia a ge oni so o casa – un bugiga olo di venti metri quadri
con sei lavatrici e due asciugatrici – e mi sedevo di fronte agli oblò,
senza leggere né parlare con nessuno. Mi piaceva veder girare i
panni, studiare le sequenze, lasciare che quella forza centrifuga
a raesse i miei pensieri. Così è stato per quei magnifici uccelli che
mentre ci allontanavamo dalle antenne sono diventati piccoli punti
neri nello specchie o retrovisore.
Distra o dai loro voli, l’arrivo alla villa mi ha colto di sorpresa.
L’agente immobiliare è sceso dall’auto e mi ha consegnato le
chiavi. Il completo blu era tu o sgualcito, la camicia sbo onata
p
g
lasciava intravedere in mezzo alla peluria una piccola croce d’oro.
Mi ha stre o la mano con il vigore affe ato dei venditori, era felice
per quella commissione caduta dal cielo. Credo che in cuor suo
avesse sempre pensato che quella casa fosse destinata a marcire sfi a
per secoli. E invece ero arrivato io.
«Ho un mazzo di chiavi in più, glielo lascio per sua moglie.»
Per qualche secondo è rimasto con il braccio proteso in avanti. Poi
ha fa o tintinnare le chiavi come per risvegliarmi. Le ho afferrate,
erano tu e umide di sudore.
È rimontato in macchina ed è andato via agitando la mano fuori
dal finestrino.
Ho richiuso il cancello. Il suo cigolio stridente ha separato la mia
casa da quelle dei vicini. Le foglie modellate dai fabbri si
arrampicavano sulle sbarre ritorte. Gli arzigogoli fiammeggianti di
ruggine disturbavano la vista di ville acerbe, rabberciate, come se
fossero state finite di corsa, prima che calasse il sole.
Una moto è sfrecciata sobbalzando sulla strada sterrata. L’ho
seguita con lo sguardo finché non ha svoltato l’angolo, poi mi sono
girato con l’eco ferrosa della marmi a ancora nelle orecchie.
Circondato da una coltre di polvere bianca, ho guardato meglio la
casa; era larga e schiacciata, con qua ro robusti pilastri in cemento a
delimitare la veranda; i muri tirati su con grosse pietre a vista; il te o
spiovente che un tempo doveva essere stato coperto da tegole rosse;
tu o era avvolto dall’impasto ben calibrato di un colore
indescrivibile che solo l’abbandono sapeva usare.
Il giardino era la parte più fatiscente di tu a la villa. Un’altalena
divelta e coricata a terra stava per essere inghio ita dalle erbacce. I
rovi avevano quasi del tu o colonizzato le recinzioni e i pochi fiori
spontanei della primavera resistevano come giardini segreti e
inaccessibili.
Tre noci dal tronco lungo e maculato e un pino a destra delle scale
d’ingresso si stagliavano alteri e rigogliosi.
Era la classica casa di campagna che qualche nonno aveva
costruito nella speranza di veder un giorno giocare i nipoti,
numerosi e vocianti, in giardino. Ma qualcosa era andato storto.
Sentivo il ba ito del cuore nel palmo della mano, dentro le orecchie.
p
Ho scollato la camicia dalla schiena sudata e come un novello
Armstrong ho accennato qualche passo sul viale o. Destro, sinistro,
destro, tanto mi è bastato per capire che non sarei stato sbalzato via
dalla forza di gravità. Arrivato so o il portico ho scansato il tavolino
smangiato dalla ruggine e le bombole del gas riposte arbitrariamente
fra stufe, lampade, a rezzi per la cura del giardino. Ho raggiunto le
scale e, infilata la chiave in una malmessa porta di legno, sono
entrato per la prima volta in casa.
L’ambiente, in penombra, era pervaso da un odore di muffa. Al
centro del soggiorno campeggiava un tavolone in legno massiccio,
sovrastato da un lampadario barocco in finto cristallo che rifrangeva
i pochi riflessi iridescenti nell’aria umida della stanza.
Ho aperto tu e le finestre e controllato che il gas uscisse dai
fornelli. Messo in funzione il frigo, ho scaricato le casse di birra che
mi ero portato in dote dalla vecchia casa. Poi ho svuotato il
bagagliaio: una valigia con dei vestiti e uno zaino in cui avevo
infilato qualche cianfrusaglia del passato.
In macchina era rimasto solo lo scatolone dei libri. Mentre lo
portavo dentro, proprio in mezzo al viale o, il cartone ha ceduto e i
libri sono finiti sull’accio olato. Li ho recuperati un po’ per volta,
trasportandoli in piccole pile. Quando ho finito mi sono fermato a
guardare il tramonto. C’era una luce epica, impietosa per un
inquilino comune di una villa pacchiana, indifferente e muta come
una rovina che nessuno avrebbe saputo interpretare. L’impasto di
pietra, cemento e malta che mi circondava poteva resistere alle
tempeste finanziarie e ai terremoti in Borsa, alle oscillazioni dello
yen, allo spread altalenante, alle speculazioni del mercato, agli
a acchi terroristici dell’Isis, alle campagne di veganesimo su
Facebook e Twi er. Poteva resistere ai mobili Ikea e alle buste di
pasta surgelata, la mia cena di quella sera.
Ho mangiato in piedi, lentamente, senza sentire odori, immerso
nell’umidità della cucina. Alla fine mi sembrava di avere della terra
in fondo alla gola e nell’esofago. Dal rubine o è venuta fuori acqua
marrone. L’ho lasciata scorrere per qualche minuto ma non è servito
a molto. Ho aperto il frigo e ho preso una birra. Poi ne ho bevuta
un’altra, e un’altra ancora finché non mi è stato più possibile stabilire
a che numero fossi arrivato.
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