Cambiare idea – Zadie Smith

SINTESI DEL LIBRO:
Quella che segue è la versione riveduta e corretta di una conferenza
tenuta agli studenti del corso di scrittura della Columbia University di
New York il 24 marzo 2008. Il tema era: «Parlare di qualche aspetto
del proprio mestiere».
1. Macropianificatori e Microgestori
Prima di tutto, un’avvertenza: ciò che ho da dirvi sul mio mestiere
non va oltre la mia esperienza personale, che è quella che è – dodici
anni e tre romanzi. Anche se il mio intervento sarà diviso in dieci
brevi sezioni che rappresentano le varie fasi della stesura di un
romanzo, quella che descrivono più precisamente, in verità, è la
stesura dei miei romanzi. Chiarito questo, voglio mettere a vostra
disposizione due brutti termini per indicare due specie diverse di
scrittori: il Macropianificatore e il Microgestore.
Il Macropianificatore si riconosce dai suoi post-it, dalle Moleskine
che insiste a comprare. Il Macropianificatore prende appunti,
organizza il materiale, elabora una trama e crea una struttura: tutto
ciò prima ancora di scrivere il titolo del libro. Questa sicurezza
strutturale gli concede una grande libertà di movimento. Non è raro
che i Macropianificatori comincino a scrivere i loro romanzi partendo
dal centro. Man mano che procedono, in avanti o all’indietro, le loro
difficoltà si moltiplicano con il moltiplicarsi delle scelte. Conosco
Macropianificatori che sostituiscono ossessivamente un finale con
un altro, tolgono personaggi dal libro e ce li rimettono, invertono
l’ordine dei capitoli e compiono frequenti – e per me impensabili
interventi radicali sul romanzo: spostano l’ambientazione da Londra
a Berlino, ad esempio, o cambiano il titolo. Io non riesco neanche a
starli a sentire quando parlano di tutto questo, non perché lo
disapprovi, ma perché i metodi degli altri scrittori sono sempre
assolutamente incomprensibili e terrificanti. Dal canto mio, sono un
Microgestore. Inizio un romanzo dalla prima frase e lo concludo con
l’ultima. Non mi verrebbe mai in mente di scegliere fra tre finali
diversi, perché non ho la più pallida idea di quale possa essere il
finale finché non ci arrivo, e chi ha letto i miei romanzi non ne sarà
sorpreso. I Macropianificatori hanno la casa quasi tutta costruita fin
dal primo momento, e dunque la loro ossessività si concentra
sull’interno: spostano di continuo i mobili. Mettono una sedia in
camera da letto, poi in salotto, poi in cucina e poi la riportano in
camera da letto. I Microgestori costruiscono la casa piano per piano,
procedendo per singoli elementi fino all’interezza. Ogni piano
dev’essere robusto e ben arredato, con tutti i mobili al loro posto,
prima che sopra se ne possa costruire un altro. Nel corridoio c’è la
carta da parati anche se le scale non portano ancora da nessuna
parte.
Dato che i Microgestori non fanno progetti su larga scala, i loro
romanzi esistono solo nel momento presente, in una certa
sensibilità, nella frequenza tonale di ogni riga. Quando comincio un
romanzo, sento che di quel romanzo non c’è nulla al difuori delle
frasi che metto sulla pagina. Devo stare molto attenta: l’intera natura
dell’opera cambia a seconda della scelta di qualche parola. Il che
conduce a un tipo particolare di patologia per la quale ho un altro
brutto nome: sop, ossia sindrome dell’ossessione da prospettiva. Si
presenta soprattutto nelle prime venti pagine. È una sorta di dramma
esistenziale, una lunga risposta alla breve domanda Che tipo di
romanzo sto scrivendo? Si manifesta sotto forma di fissazione
ossessiva sulla prospettiva e la voce narrante. Nel giro di un solo
giorno le prime venti pagine possono passare dal presente in prima
persona al passato in terza persona, al presente in terza persona, al
passato in prima persona, e così via. Cambio il tutto diverse volte al
giorno. Dato che sono una scrittrice inglese schiava di un’antica
tradizione, in ogni mio romanzo ho finito per ritrovarmi allo stesso
punto da cui ero partita: terza persona, tempo passato. Ma passo
mesi a rigirare il testo da una modalità all’altra. Aprendo i romanzi
altrui, un Microgestore riconosce subito gli altri Microgestori:
quell’accumulo iniziale di frasi scritte con fin troppa cura, rilavorate
ossessivamente, un blocco di ampollosa verbosità che si scioglie e
si rilassa solo una volta superato il traguardo delle venti pagine. Nel
caso di Sulla bellezza, la mia sop è degenerata incontrollabilmente:
quelle prime venti pagine le ho riscritte per quasi due anni.
Ripensare a tutte le proprie opere passate fa venire la nausea, ma le
prime venti pagine in particolare danno le palpitazioni. È come fare
visita a una cella dove un tempo si è stati incarcerati.
Eppure, mentre la sop fa il suo corso, in qualche modo il resto del
romanzo viene alla luce. È questa la cosa strana. È come dare la
carica a una macchinina girando e rigirando la chiavetta a molla...
Quando alla fine la lasciamo andare, parte a una velocità pazzesca.
Stabilito una volta per tutte il tono, il resto del libro l’ho finito in
cinque mesi. Scervellarsi sulle prime venti pagine è un modo per
lavorare sull’intero romanzo, per trovarne la struttura, la trama, i
personaggi: tutte cose che, per un Microgestore, sono contenute
nella sensibilità di una frase. Quando c’è il tono, il resto viene di
conseguenza. Certi decoratori di interni dicono lo stesso a proposito
di una sfumatura di vernice.
2. Le parole altrui, prima parte
Scrivere un romanzo è fondamentalmente un trucco basato sulla
credulità. E la prima persona che dovete convincere a crederci siete
voi stessi. È difficile riuscirci da soli. Io raccolgo frasi in giro,
citazioni, l’equivalente letterario di una squadra di cheerleader. Solo
che l’analogia non è molto azzeccata: le cheerleader ispirano
allegria. Io attacco al muro cartelli che mi fanno stare malissimo. Per
cinque anni ho tenuto appiccicata alla porta una citazione da
L’arcobaleno della gravità:
Dobbiamo trovare quegli strumenti di misura di una scala sconosciuta al mondo,
tracciare i nostri stessi disegni schematici, elaborare il segnale di retroazione,
stabilire i collegamenti, ridurre il margine d’errore, cercare di apprendere la funzione
reale... su quale incalcolabile disegno dobbiamo azzerare l’obiettivo?
All’epoca, probabilmente pensavo che il compito del romanzo
fosse andare alla scrupolosa ricerca di informazioni nascoste:
personali, politiche o storiche che fossero. Dico probabilmente
perché non riconosco più quella scrittrice, e la sua idea di romanzo
già mi sembra oppressiva, aliena, inutile. Credo che questa
sensazione non sia insolita, specie agli inizi. Non tanto tempo fa,
durante una cena, ero seduta accanto a un giovane scrittore
portoghese e gli ho detto che volevo leggere il suo primo romanzo.
Lui mi ha afferrato un polso, in preda a una sincera disperazione, e
ha detto: «No, ti prego, non lo fare! All’epoca leggevo solo Faulkner.
Non avevo nessun senso dell’umorismo. Oddio, ero tutta un’altra
persona!»
Ecco, funziona così. Le parole altrui sono molto importanti. E poi,
senza nessun preavviso, smettono di essere importanti, così come
tutte le vostre parole che le loro parole vi hanno stimolato a scrivere.
Gran parte dell’esaltazione che ci dà un nuovo romanzo sta nel poter
ripudiare quello precedente. Le parole altrui sono il ponte che si usa
per passare da dove si è a dove si vuole andare.
Ultimamente mi sono imbattuta in una nuova citazione. L’ho
messa come screensaver sul computer, mi aiuta a crederci un po’
mentre cerco di scrivere un altro romanzo. È un pensiero di Derrida,
molto semplice:
Se non si mantiene il diritto al segreto si entra in uno spazio totalitario.
Vale a dire: basta con la dissezione umana, basta entrare nella
testa dei personaggi, spaccarla come una noce, estirparne ogni
segreto! Per ora, questo è il mio nuovo atteggiamento. Fra qualche
anno, quando questo libro sarà finito e ne starò cominciando un
altro, le cose cambieranno ancora.
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