Cadere – Carlos Manuel Álvarez

SINTESI DEL LIBRO:
Telefono a mia madre per sapere se è caduta e mi dice di no.
Rimaniamo in silenzio per un istante. So come vanno le cose a
quest’ora. La preoccupazione per la pentola di fagioli sul fuoco, il
fastidio per la spazzatura che straborda e nessuno che si prende la
briga di buttarla, la tristezza per il legno vecchio delle finestre della
camera da letto che continuerà a marcire per tutta la vita.
Davvero, sto bene, dice. Non si è sentita male, non ha avuto
nausee e ha preso le pasticche in orario. Dal soffitto pende la luce
gialla di una lampadina a incandescenza. Noi soldati ci fondiamo con
le colonne di cemento rotto e i banchi di pietra, le sbarre arrugginite
e le grondaie del tetto, precipitando tutti per un po’ nel vortice della
notte. La saluto, riaggancio il telefono, abbandono la postazione
dell’ufficiale di picchetto e torno in camerata con gli stivali slacciati,
strascicando i piedi. La camicia di fuori e la cintura intorno al collo.
Sono venuti a prendermi a casa ormai parecchi mesi fa. A
diciott’anni il servizio militare è obbligatorio, ma esistono dei modi
per evitarlo. Alcuni ragazzi del mio quartiere sono riusciti a farla
franca grazie a qualche parente che ha falsificato dei certificati
dichiarando non so quali malattie congenite, o ha corrotto la
commissione esaminatrice. Se avessi un padre ragionevole, anche
io mi sarei potuto risparmiare questa robaccia, ma a casa mia non ci
si azzarda nemmeno a parlare di corruzione o di aggirare la legge.
Armando mi ha detto che era orgoglioso di me perché andavo a
compiere il mio dovere, così come tempo addietro aveva fatto lui. Io
non ho aperto bocca, poi mi sono fatto scappare un gesto di
disprezzo. Armando non se n’è nemmeno accorto. Mia madre sì.
Non riesco a cancellare quel momento dalla mia testa, forse non
voglio farlo. È come una mosca, la scaccio con la mano ma torna a
poggiarsi. Adesso mi rimane pochissimo tempo per riposare prima di
montare la guardia. L’idea che mia madre potesse essere caduta mi
ha fatto perdere un sacco di tempo, forse trenta o quaranta minuti.
Non è solo il tempo che impieghi ad andare dalla branda alla
postazione dell’ufficiale di picchetto. Bisogna considerare anche il
tempo che passa dal momento in cui l’idea comincia a ronzarti in
testa al momento in cui decidi di metterla in pratica.
Vuoi continuare a dormire ma senti che non ci riuscirai, le filacce
del sonno sono come giunchi a cui cerchi di aggrapparti. L’insonnia ti
trascina giù con la corrente. Hai ancora gli occhi chiusi, dormono
anche gli altri soldati, e tu fai resistenza, non vuoi credere di essere
sveglio, ti convinci ancora per un istante che stai continuando a
dormire e stai solo sognando di svegliarti. Eppure si è messo in moto
qualcosa che sfugge al tuo controllo.
Apri la porta di legno della camerata con grande cautela perché i
cardini non cigolino, non vuoi svegliare nessuno e men che meno
vuoi che qualcuno ti lanci contro uno stivale, di litigate ne hai già
avute abbastanza. È una stanza di cinque metri quadrati in cui tutti
sono indistintamente amici e nemici, e in cui tutti sono anche amici e
nemici di sé stessi.
Alle dieci e mezza di sera gli insetti si agitano intorno alla
lampadina gialla del cortile principale, un rumore di fondo che si
intensifica con l’avanzare della notte. Ogni cosa che smorzi il
silenzio è un guadagno netto per il soldato e la sua salute mentale.
Procedi per il corridoio, lo sguardo scivola sulle cose, non si fissa su
nulla in particolare, come se gli oggetti e le figure e i concetti che
formano il mondo non volessero farsi guardare. Arrivi alla postazione
dell’ufficiale di picchetto, infili la mano oltre i doppi vetri del
finestrone, attraverso la ringhiera di ferro arrugginito, e prendi il
telefono sulla scrivania.
L’ufficiale di picchetto dorme, un capitano generoso venuto
meno, come tutti i tenenti o i capitani o i tenenti colonnelli che
portano avanti questa unità militare, piena di gente alcolizzata che
ha sprecato anni ad aspettare o a prepararsi per una guerra che non
è mai arrivata, o che è arrivata in altri modi e gli si è infilata dentro e
da dentro se li è mangiati.
Fai il numero di casa, riconosci la voce di tua madre, decidi di
usare un tono normale, e tua madre risponde con disinvoltura.
Rimani fermo un attimo e poi torni in camerata. La camicia di fuori,
gli stivali slacciati e la cintura intorno al collo. Ci metterai un po’ a
addormentarti di nuovo. Ti chiedi perché ogni tanto tua madre deve
parlare come se fosse ritardata.
Dicono che è la malattia, ma che significa? Ti disorienta quella
signora che a volte si infila nel corpo della madre che conosci e che
devi continuare a chiamare madre quando ormai in lei non c’è più
niente che conservi la più remota affinità con la madre che hai
conosciuto, eccetto, forse, certe caratteristiche fisiche, ma
nemmeno, perché la dissennatezza che, dicono, sopraggiunge in
seguito alle cadute sostituisce lo sguardo trasparente di tua madre
con uno sguardo vago e ipnotico, la bocca di solito ricolma di parole
con una bocca secca e storta, una smorfia strana più che altro, la
pelle tiepida e vibrante, com’è la pelle delle madri, con una buccia
pallida e sgualcita, e il corpo agile e ipercinetico con una massa
deforme e molto lenta, o del tutto immobile, nella quale nessuno
potrebbe trovare rifugio.
Tra meno di un’ora devi montare la guardia. Senti il trotto
sghembo del cuore proprio sotto l’orecchio, come se il cuore fosse
finito dentro il cuscino, un rospo nascosto nella federa. È un martellio
fastidioso, ma è il primo segnale che stai cominciando a
addormentarti: l’orecchio si gira e comincia ad ascoltare verso
l’interno. Poi ti soffermi su qualcosa di molto vago, come il dolore
delle articolazioni, che è diventato un dolore piacevole.
Non cerchi di aggrapparti a niente, ti abbandoni alla corrente,
come un corpo rotto, fino a che ti impigli in un giunco o qualche
mulinello ti trascina o ti assesti su una secca, e poi l’ultima cosa che
pensi è che è andata, ora ti addormenti, e che quello, che ora ti
addormenti, è l’ultimo pensiero che fai, e che poi nella tua testa non
ci sarà nient’altro, e poi, in effetti, non c’è nient’altro.
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