Arsenale di Roma distrutta – Aurelio Picca

SINTESI DEL LIBRO:
Quando la vidi non sapevo fosse Roma. Era domenica e nell’aria
non volava un grammo di polvere. L’autobus ci lasciò sulla via Appia,
a cinquanta metri da via del Quadraro. Sulla destra l’acquedotto
proseguiva obliquo: un lungo treno di catrame, un pezzo di legno
carbonizzato.
La luce del mattino timbrava ogni oggetto. Anche l’asfalto era una
pista. Ma nessuna macchina o moto la percorreva. Il cielo, molto
alto, sono sicuro che aveva abbandonato con gentilezza l’alba e
andava a rincorrere il sole di giugno.
Con la tata, o serva, alla quale avevano ucciso a tradimento il
marito di notte in un portone di San Lorenzo, percorrevo a piedi via
del Quadraro per attraversare piazza San Giovanni Bosco e poi il
viale con i palazzi - scatoloni di cartone imbandierati di bucato.
Erano color pelliccia di volpe. Dalle finestre scendevano perfette
decine di lenzuola bianche. Una festa di luce.
La basilica non l’avevo neppure notata. Dopo molti anni mi
sarebbe apparsa come una centrale nucleare, con la cupola identica
a
quella di Borgo Sabotino: spettrale di notte, ambigua e
ammonitrice di giorno.
Tenendo la mano alla tata venivo risucchiato dalla festa sacra
delle lenzuola immobili su fondo begiolino. Roma era una visione.
Roma è sempre una visione quando decide di fermarsi smemorata.
Di assentarsi dal mondo. Di cancellare il suo stesso passato. Roma
è la meraviglia quando emerge dal nulla. È un maschio-femmina
nudo; enorme e invisibile; un remoto console che si apposta
concentrato con il gladio in mano. Roma è una specie di fotogramma
che cattura l’eternità.
Non girava auto né persona. Allora eccoci a casa della figlia di
Nunziata, sposata minorenne a un bravo ragazzo che in seguito
diverrà ufficiale della Forestale, e che molti anni dopo, scoprendo
sua moglie adultera, si getterà dal settimo piano di un palazzo
dell’Alberone dove si aggiravano, sempre su Appia Nuova, per
l’esattezza al bar Cavallini dei Colli Albani, quelli del clan dei
Marsigliesi con Bellicini, Bergamelli e Berenguer in testa. Proprio
Jacques Berenguer, rassomigliante a Franco Califano, svelto con la
pistola quanto il gancio sinistro di Nino Benvenuti che fulmina
Rodríguez. Roma fu stupenda anche quando il povero uomo si
lanciò nel vuoto. La città era d’oro zecchino mentre il corpo toccava il
marciapiede dinanzi alla rosticceria.
Il forestale era scomposto quanto un maiale squartato mentre i
polli ruotanti nel girarrosto sembravano piccoli pianeti profumati.
In quelle due stanze del Quadraro – ero cosí timido da tenere il
mento incollato al collo – la luce non faceva sconti: pittava i muri
lasciando alle ombre il minimo affinché tutto rimanesse
indimenticabile. In salotto giocava, con una bambolina, la nipote
della figlia di Annunziata. Era alta, magra. Me ne innamorai
all’istante. E con lei mi innamorai perdutamente della bambola con la
quale giocava e che non mi voleva cedere in nessun modo.
Pure la bambina era Roma. Pure la bamboletta lo era. Sarà per
quest’incontro incantato che, da grande, sulle mie folli automobili, ho
incominciato a fare accomodare accanto al posto di guida una
Barbie. Adesso capisco che quella silhouette seriale, di ingenuità
viziata, era la lontana parente della bambina che custodiva la Roma
dei miei tre anni.
Il grido di battaglia
Ero ubriaco di Long John, come chiamavano Giorgio Chinaglia, il
bomber della Lazio, quello che, per ammorbidirli, andava a letto con
gli scarpini Pantofola d’Oro. Per i romanisti: er gobbo. Da quando
fece gol nel derby e corse sotto la Sud con l’indice puntato a pistola.
Ora che è morto, Roma dovrebbe piagne lacrime amare. Non solo i
laziali. Pure i giallorossi, perché se ne è andata la giovinezza. Il
tempo epico. Sanno che era un avversario barbaro, leale, bestia di
passione, pronto a trascinare il gioco nel rettangolo dell’ultima sfida.
Uno cosí, sulla loro strada, non l’hanno piú trovato.
Giorgio Chinaglia, nato a Carrara, città repubblicana e ribelle,
emigrato in Galles, è stato per Roma una creatura dal sangue
limpido, un cristianaccio folle come i compagni di scuola che si
beccavano una carretta di bacchettate ma erano pronti a dividere la
merenda con te. Chinaglia è stato l’Arcangelo di Roma.
Long John lo sfondatore, urlo di giovinezza prima del rompimento
di coglioni degli anni di piombo. Diventato figlio dell’Olimpico affinché
lo strazio della vitalità potesse ricadere su tutti: tifosi e avversari.
L’Olimpico di quando la luce di Roma calava maestosa in un teatro
che poi ha chiuso i battenti. Con la collinetta di Monte Mario che
svettava fuori da un cielo inafferrabile. Quella era una Roma che nel
Dna aveva impresso il Belli. Una città a testa alta: spaccona,
paracula – e sti cazzi! –, che faceva l’occhietto.
Chinaglia è stato un grande amore per i laziali, e un grandissimo
nemico per i romanisti: «Morte al gobbo!» Roma, dunque, piangi! E
ricorda la tua giovinezza. Le lacrime non devono essere miserabili,
da fine impero. La morte del Barbaro per non dimenticare che Roma
ha bisogno dell’orgoglio, delle sfide, di fasti cesarei e papali. Qui
bisogna riprendere a sfottere il Mondo.
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