Anche le pulci prendono la tosse – Roberto Costantini

SINTESI DEL LIBRO:
Il
Sasà
Gran Caffè Invernizzi, sotto gli archi di corso Italia, nome
pretenzioso, cambia odore di ora in ora: brioche la mattina, tonno e
uova a pranzo, birra da metà pomeriggio, prosecco e pizza al taglio
all’aperitivo.
Cambiano anche gli avventori: scolaresche chiassose al mattino,
voraci impiegati del Comune e dei negozi a pranzo, perdigiorno al
pomeriggio, coppiette prima di sera. leggenditaly.com
Verso le cinque era il momento di calma, prima del nuovo
pienone, e una parte dei tavolini era riservata ai cartari, equamente
divisi tra pensionati e malfattori. I quattro uomini che giocavano a
Scopone non erano in pensione e cercavano di isolarsi dalle
chiacchiere del numero crescente di avventori.
A quattro carte dalla fine il Prete calò il sette di bastoni accanto al
quattro di coppe che era sul tavolo e il Piscione alla sua sinistra, che
era anche il mazziere, restò un attimo a pensarci, nessuno aveva
sparigliato, lui aveva un sette e tre Re, il Prete doveva avere per
forza due sette. Se il quarto sette lo aveva Unghienere, il suo
compagno, prendere o meno non faceva differenza, i quattro sette
erano tutti loro. Ma se ce l’aveva il Dentista, il compagno del Prete,
prendere ora non era il caso. Il Piscione in Comune si occupava di
pratiche edilizie, aveva persino studiato da geometra e fatto qualche
esame di ingegneria, in realtà solo uno ed era stato bocciato, di
numeri e di statistiche ci capiva. Rinunciò a prendere, calò uno dei
Re e il Dentista arraffò col settebello.
Poco dopo, quando fu chiaro che i due sette non li aveva il Prete
ma erano divisi uno per ciascuno, scoppiò il solito casino.
«Uelà, testina, pensi minga che siamo tutti pirla?» esplose
Santuzzo Orlando, detto il Piscione per quel problemino alla prostata
per cui era stato beccato a orinare dietro un altare in chiesa durante
l’interminabile cerimonia funebre per sua madre.
Salvatore Esposito, detto il Prete per un lontano passato da
chierichetto, cercò di non sorridere. L’accento siculo del Piscione
abbinato al dialetto lombardo era ridicolo.
«È che ogni tanto mi scordo le regole dello Scopone e penso
come a Texas Hold ’em.»
Unghienere,
al
secolo
Gavino
Ortu,
altro
lombardo
d’importazione, si rivolse al Dentista esibendo lo stesso ghigno che
aveva quando svuotava di persona le monetine dalle sue slot
machine. Era un’attività che avrebbe ormai potuto delegare ai negri
che lavoravano per lui, negri in nero, ma scassettare gli dava ancora
un piacere fisico intenso, più che le puttane del Prete, sebbene gli
annerisse le unghie.
«Ehi, Dentista, non è che al Prette tu gli hai fatto segno che avevi
un sette?»
Il
tono non era offensivo. Essendo Gavino Ortu uno dei boss
delle videoslot, che prima erano gli illegalissimi videopoker nascosti
nel retro dei bar, era quasi un titolo d’onore che sospettasse
qualcuno di barare al gioco. Il raddoppio delle consonanti, il suo
dialetto sardo naturale, indicava che era rilassato e sincero. I suoi tre
compari di carte e prosecco lo sapevano bene, di Unghienere
bisognava diffidare solo quando non raddoppiava, perché allora
mentiva.
Il Dentista, Jacques Casiraghi, era l’unico lombardo di nascita,
l’unico in giacca e cravatta, l’unico laureato, l’unico coi capelli
argentei ben tagliati e ben sbarbato, ed era anche l’unico che cavava
i
denti buoni a chi tardava a restituire i prestiti. Era pragmatico, a
differenza di quei tre terroni. Non degnò nemmeno di risposta la
battuta di Gavino Ortu. Gettò un’occhiata in giro, la saletta dove
stavano si era già riempita, fuori si vedeva la folla che si scaricava
nei negozi e le luci delle auto in coda.
«Niente rivincita, ora mi devo sbrigare, ci sarà un gran casino.
Sicuri che non volete venire con me? I biglietti li troviamo dai
bagarini a San Siro.»
Santuzzo Orlando fece segno di no.
«Con questo traffico della madonna, Dentista? Io un viaggio in
macchina di due ore non lo reggo minga, o ci hai il water nel SUV? E
poi io tifo Juve, questi zingari della DEA si possono fùttiri!»
Anche Gavino Ortu si dissociò, per motivi solo calcistici e non
urinari.
«Allo stadio per l’Atalanta non ci vengo manco pagatto. Voi in
Champions siete degli imbucatti e stasera i toreri vi fanno un culo
come un secchio.»
Jacques Casiraghi era l’unico dei quattro che aveva superato la
sessantina, l’unico autorizzato a sfottere e non essere sfottuto.
«Unghienere, rosica pure, il tuo biscione ha fatto la solita figura di
merda, siete abbonati. E tu, Piscione, guarda che in Champions non
è come qui in Italia, non si vince rubando!» Poi si rivolse a Salvatore
Esposito. «E tu, Prete, guarda che Messi se lo mangia come uno
struffolo il tuo Napoli.»
Salvatore non amava affatto il calcio dei milionari. Suo padre
Gennaro ci aveva rimesso i risparmi di una vita da muratore a
scommettere su quegli incapaci o pavidi dei calciatori partenopei,
l’anno in cui la camorra aveva deciso che Maradona e Careca la
dovevano smettere di farle perdere soldi. Si era appeso al limone
nell’orto dietro casa una sera del maggio del 1988, quella del decimo
compleanno di Sasà suo, dopo avergli regalato la maglia argentina
col 10 di Diego, comprata usata alla bancarella con le ultime mille
lire. Suo figlio non l’aveva mai capita quella cosa. L’aveva odiato per
non aver avuto il coraggio di affrontare la situazione e continuare a
vivere.
«No, Dentista, a me il calcio non mi fa sangue.»
«E allora perché finanzi la squadretta della parrocchia?»
Era un argomento scivoloso, a cui Salvatore Esposito rispondeva
sempre con una mezza verità.
«Non mi piace il calcio dei ricchi, quelli sono ragazzini, mi diverto.
E poi mi chiamano il Prete, no? La parrocchia è casa mia.»
Oltre le vetrate il traffico di corso Italia cresceva, come sempre
dopo le cinque del pomeriggio, quando chiudevano le fabbriche in
valle e il paese si riempiva di auto i cui scarichi si mescolavano agli
altri veleni che giravano fuori nell’aria ogni giorno.
«Sono trent’anni che sto qui e ancora mi manca il sole di Napoli»
mormorò Sasà.
Jacques Casiraghi gli lanciò quello sguardo ironico che regalava
spesso ai suoi tre amici terroni.
«Senza gli imprenditori e gli operai di quelle fabbriche non
venderesti né le tue villette abusive né le tue puttane, Prete. Un po’
di smog non fa male a nessuno, andare ogni giorno alla mensa dei
poveri sì.»
Ormai la folla premeva intorno a loro, tutti bramavano il tavolino
anche perché il televisore nella saletta prometteva la partita della
DEA dopo l’aperitivo.
il
Jacques si alzò, bello, alto, con la chioma argentata ben tagliata,
naso aquilino, ancora l’abbronzatura delle Maldive e di Cortina,
impeccabile nel suo completo di sartoria.
«Terùn!, ci vediamo qui domani mattina per celebrare il Papu e il
Gasp.»
«A Milano lo staddio è sempre pieno di cinnesi, non hai paura
che siano appena arrivatti da quel cesso di Wuhan?»
Jacques Casiraghi tirò fuori qualcosa dalla tasca del cappotto
nero corto, alla moda, poi indossò la mascherina, coprendosi naso e
bocca.
«A su male su remediu, Gavino. Vedi come imparo le lingue?
Pensate che da mio figlio Cesare in farmacia non si trovano, la gente
è matta, come se qua fossimo a Wuhan!»
Gli altri tre se ne andarono, ma Salvatore no, quella mascherina
aveva colpito la sua immaginazione.
Metti che ’sti cinesi zozzi ci purtassero ’o virus puro ccà…
Si ficcò in bocca il mezzo toscano spento che usava come
stimolo a riflettere. Se ne fotteva di tutta quella calca che lo
guardava in cagnesco perché volevano che liberasse il tavolino.
Ripensò a ciò che aveva detto il Dentista. Be’, anche lui era un
imprenditore, senza aver finito nemmeno le superiori! Vero, il
business che alimentava il suo piccolo impero erano le puttane, ma
era un business pulito, moderno, organizzato. Vero, i proventi di quel
business pagavano le mazzette a gente come il Piscione, che
cambiava la destinazione d’uso ai terreni del Prete e con grande arte
li trasformava da verde pubblico a edificabili. Ma alla fine lui dava
lavoro ogni mese a quaranta persone, tra le puttane e i manovali.
Vero, tutti migranti, in nero, su cui non pagava un euro di tasse. Ma
erano la feccia del mondo e senza di lui sarebbero morti di fame e
un giorno il Signore lo avrebbe premiato per il bene che faceva.
Dunque, lui era un imprenditore del bene, aveva come consigliera
privata nientemeno che la Madonna!
Tre ragazzi si sedettero ai posti lasciati liberi dai suoi amici, così,
senza nemmeno chiedere permesso. Salvatore sentiva la puzza di
birra, sudore, alito di sigarette appena fumate, uno dei tre aveva
pure una tosse secca ed era tutto sudato, con la sciarpa e il berretto
nerazzurri.
Metti che alla gente gli viene la piscosi…
Tirò fuori dalla tasca della giacca celeste di Armani il suo iPhone
X con la cover personalizzata con l’immagine della Madonna del
Consiglio. Prese un appunto: mascerine.
Poi si alzò. Aveva appuntamento con Bocca di Rosa. Detestava
l’albergo Paradiso, vicino a quello squallido centro commerciale
sempre pieno di gente, per acquisti di giorno, per il cinema e il
bowling di sera. Ma lei era una donna perbene, almeno in via
ufficiale, voleva un posto discreto e poi la qualità della scopata
compensava quella del posto. Le donne, tranne sua madre e le sue
sorelle, erano di due tipi: puttane mascherate da irreprensibili o
puttane ufficiali come le sue negre. Le prime, come Bocca di Rosa,
lo eccitavano a letto, ma non si sarebbe mai potuto innamorare di
una che violava in modo così grave un comandamento del Signore.
Le seconde, quelle sì che gli ispiravano amore, ma doveva ben
guardarsi dal dirlo. Avrebbe perso il rispetto del Dentista, di
Unghienere, del Piscione. E poi lui aveva ampia scelta, con i suoi
occhi azzurri, i folti capelli lisci, il fisico palestrato.
Quando uscì su corso Italia i marciapiedi traboccavano di gente a
passeggio o che entrava e usciva dai negozi, molti con addosso le
sciarpe nerazzurre. I bar con la tv erano già quasi pieni, il puzzo
degli scarichi delle auto incolonnate era fortissimo e l’aria del tardo
pomeriggio invernale era satura di qualcosa che il Prete non sapeva
descrivere.
Salì sulla sua BMW X5, e con la solita flemma cominciò a districarsi
nel groviglio di lamiere.
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