A cosa serve questo pulsante? – Bruce Dickinson

SINTESI DEL LIBRO:
Gli eventi che contribuiscono a formare la personalità di un individuo
interagiscono in modi bizzarri e imprevedibili.
Ero figlio unico e fino ai cinque anni ero stato tirato su dai nonni. Ci
vuole sempre un po' per capire le dinamiche familiari, e io impiegai
parecchio per comprenderle a fondo. Ero cresciuto, mi resi conto, in un
misto di senso di colpa, amore non corrisposto e gelosia, il tutto pervaso da
una percezione del dovere esasperata, dal costante obbligo di eccellere.
Oggi mi accorgo che l'affetto non era molto, ma c'era una discreta
attenzione al dettaglio. Sarebbe potuta andare molto peggio, considerate le
circostanze.
La mia vera madre si era sposata molto giovane, in fretta, con un soldato
un po' più vecchio di lei che si chiamava Bruce. Mio nonno materno
avrebbe dovuto controllare i due durante il periodo del corteggiamento, ma
aveva una mentalità aperta e non era un moralista, e sospetto che stesse
dalla parte degli amanti; non era così per mia nonna, per la quale chi le
aveva rubato l'unica figlia era una canaglia, nemmeno del Nord, un intruso
che veniva dalle pianure, dalla costa desolata del Norfolk, insozzata dai
gabbiani. L'Inghilterra dell'Est: paludi, acquitrini, torbiere, un mondo che da
secoli era patria di anticonformisti, anarchici, accattoni di un'esistenza
strappata a fatica alla terra bonificata.
Mia madre era minuta, lavorava in un negozio di scarpe e aveva vinto
una borsa di studio per la Royal Ballet School, ma mia nonna le aveva
proibito di andare a Londra; così, vistasi negare la possibilità di realizzare il
suo sogno, prese al volo quello seguente, e con lui arrivai io. Guardavo una
foto di lei sulle punte, a quattordici anni, più o meno, e mi sembrava
impossibile che fosse mia mamma, una piccola diva, simile a una fata,
piena di un'innocenza gioiosa. Quella foto sul caminetto rappresentava tutto
quello che avrebbe potuto essere, ma ora che la danza era sfumata restava
solo il dovere. E un gin tonic occasionale.
I miei genitori erano così giovani che per me è impossibile dire che cosa
avrei fatto io al posto loro. La vita era tutta lì: andare a scuola e avere
successo, uscire da una condizione operaia, facendo però mille lavori. Il
peccato più grave era non impegnarsi al massimo.
Mio padre era una persona molto seria, uno che si dava da fare: cresciuto
in una famiglia di sei persone, era figlio di una ragazza di campagna che a
dodici anni era stata mandata a servizio e di un operaio edile un po' ribelle,
motociclista e capitano della squadra di calcio di Great Yarmouth.
La grande passione di mio padre erano le macchine, il mondo degli
ingranaggi, delle regolazioni, del disegno e della progettazione. Gli
piacevano le automobili e amava guidare, per quanto non ritenesse di dover
rispettare le leggi sui limiti di velocità, le cinture di sicurezza o la guida in
stato di ebbrezza. Dopo aver perso la patente, si arruolò nell'esercito: i
volontari venivano pagati meglio dei militari di leva, e lì non sembravano
preoccuparsi più di tanto di chi guidava le loro jeep.
Recuperata immediatamente la patente (militare), grazie al suo talento
ingegneristico e alla sua abilità manuale finì a lavorare come disegnatore di
scenari da fine del mondo: seduto a un tavolo, a Dusseldorf, tracciava con
cura cerchi intorno ai luoghi presunti delle stragi che l'apocalisse della
Guerra Fredda avrebbe causato, e il resto del tempo lo passava a bere
whisky per sconfiggere la noia e il senso d'inutilità che si portava dietro,
credo. E mentre ancora prestava servizio, questo muscoloso campione di
nuoto -farfalla, nientemeno - del Norfolk fece innamorare perdutamente
quell'esile ballerina che era mia madre.
Prole indesiderata dell'uomo che le aveva rubato l'unica figlia, per mia
nonna rappresentavo la stirpe di Satana, ma per mio nonno Austin ero la
cosa più vicina che ci potesse essere a un figlio, e per i primi cinque anni
della mia vita furono di fatto loro i miei veri genitori. Fu un bel periodo: le
passeggiate nei boschi, le tane dei conigli, i tramonti invernali incantevoli
sulla pianura e la brina che scintillava sotto i cieli violacei.
I miei genitori viaggiavano per lavoro, portando in diversi locali notturni
il loro spettacolo di cani, con barboncini, cerchi e tutine. Fate voi.
La casa bifamiliare al numero 52 di Manton Crescent era dipinta di
bianco: un edificio di mattoni, popolare, ordinario. Manton Colliery era una
miniera sotterranea di carbone, ed era lì che lavorava mio nonno.
Aveva iniziato a tredici anni e sarebbe stato troppo piccolo per lavorare,
così mentì spudoratamente sulla sua età e la sua altezza, modesta come la
mia, peraltro. Per aggirare il regolamento, che stabiliva che eri idoneo a
scendere sottoterra solo se la tua lanterna, legata con un cordino alla cintura,
non strusciava per terra, fece giusto un paio di nodi al cordino. Rischiò di
dover andare in guerra, ma non si spinse oltre il cancello del giardino: era
un volontario part-time del Territorial Army, ma l'estrazione di carbone era
considerata un servizio essenziale e così non era tenuto a combattere.
Rimase lì in uniforme, pronto a partire, a guardare il plotone che a passo
di marcia andava a combattere inFrancia; fu uno di quei momenti alla
Ritorno al futuro, nel quale, se avesse varcato quel cancello e si fosse unito
ai compagni per andare in guerra, un sacco di cose, me compreso, non
sarebbero successe.
Mia nonna era ferma sulla porta di casa, le mani sui fianchi e uno sguardo
di sfida.
"Se te ne vai, quando torni non mi troverai" disse.
Mio nonno non partì. Gran parte del suo reggimento non fece ritorno.
Con un nonno minatore, avevamo diritto alla casa popolare e al carbone
gratuito, e l'arte di fare il fuoco con il carbone per riscaldare la casa finì per
trasformarmi in un vero piromane. Non avevamo il telefono, né il frigo, né
un sistema di riscaldamento, né il bagno interno, né la mezza luna.
Usavamo il frigo degli altri e avevamo una piccola dispensa, fredda e
umida, che evitavo come la peste. La cucina era composta da due piastre
elettriche e un forno a carbone, ma l'elettricità era considerata un lusso da
evitare a tutti i costi. Possedevamo un aspirapolvere e il mio attrezzo
preferito, un mangano, formato da due rulli che strizzavano i vestiti
bagnati: una manovella gigante faceva girare la macchina, e lenzuola,
camicie e pantaloni cadevano in un secchio dopo essere passati tra i rulli.
C'era una vasca di plastica portatile per me, mentre mio nonno arrivava a
casa dopo essersi lavato nei bagni della miniera. A volte tornava dal pub,
intriso del puzzo di birra e cipolle, e si buttava nel letto accanto a me,
russando fortissimo. Alla luce della luna, che passava attraverso le tende
quasi trasparenti, vedevo le cicatrici blu che gli adornavano la schiena,
ricordi di una vita sottoterra.
Avevamo un capanno in cui si spaccava la legna, non sapevo bene a che
scopo, ma per me era un nascondiglio che poteva diventare un'astronave, un
castello o un sottomarino. Nel nostro cortiletto, due vecchie traversine
ferroviarie fungevano da barche a vela, dalle quali gettavo ripetutamente la
lenza per pescare squali che vivevano nelle crepe del cemento. C'era un orto
con delle specie di crisantemi che non vivevano molto a lungo e che una
notte, durante un falò, vennero inceneriti da un fuoco d'artificio fuori
controllo.
Non avevamo animali, a parte un pesce rosso di nome Peter che visse per
un tempo sospettosamente lungo.
Ma una cosa che avevamo era la televisione: la sua presenza cambiò
totalmente la mia infanzia. Dal suo schermo, largo quindici-venti pollici, in
bianco e nero, con le immagini sgranate, arrivava il mondo intero. Era un
apparecchio a valvole che impiegava interi minuti a scaldarsi e che, quando
veniva spento, irradiava una luce che svaniva lentamente fino a ridursi a un
puntino, cosa che costituiva di per sé uno spettacolo di un certo interesse.
La gente veniva da noi a vederla, ad accarezzarla, anche senza fermarsi a
guardarla. Era un oggetto con un alone mistico; sul davanti facevano bella
mostra di sé bottoni misteriosi e manopole che giravano come quelle di una
cassaforte e che erano in grado di sintonizzarla sugli unici due canali
disponibili.
Il mondo esterno, vale a dire qualsiasi posto che non fosse Worksop, ci
arrivava principalmente attraverso i pettegolezzi, o il Daily Mirror: lo
usavamo sempre per fare il fuoco e di solito leggevo le notizie due giorni in
ritardo, poco prima che fosse gettato tra le fiamme. Quando Jurij Gagarin
divenne il primo uomo ad andare nello spazio, mi ricordo che rimasi a
guardare la sua foto e pensai: Non possiamo bruciarla! La ripiegai e la misi
da parte.
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