Zoo – Paola Barbato

SINTESI DEL LIBRO:
Per primo arrivò l’odore. Come di muschio, di bestia e di stantio. Poi
il pulsare alla testa e la fitta al piede. Anna cercò di muoverlo per
scacciare il dolore ma non ci riuscì, e allora fece uno sforzo per
svegliarsi. Aprì gli occhi su un’immagine priva di senso, righe
orizzontali e una macchia scura dai bordi rossastri. Li richiuse, si
sforzò meglio, li riaprì. Righe, macchia scura, bordi rossastri. Non
riusciva a capire dove fosse, sapeva solo che si trovava sdraiata a
terra, su un fianco. Era troppo intontita per andare nel panico e
prevalse quella matrice pratica che sua madre le aveva inculcato a
forza. Provò a spostare la gamba e la fitta si acuì, simile a una
puntura. Cercò di piegare in giù la testa per guardarsi il piede ma
non riuscì a muoverla, era troppo pesante. Ruotando gli occhi
poteva intuire delle masse indistinte che dovevano essere le sue
gambe, ma non metteva a fuoco.
Ho avuto un incidente.
Se era sdraiata da qualche parte e non riusciva a muoversi, forse
era stata sbalzata fuori dall’auto. Non si ricordava di avere guidato,
però, e a parte il piede non le faceva male altro. Aveva il braccio
sinistro sepolto sotto al corpo, ma quello destro si muoveva. Lo fece
scivolare tra le cosce e cercò di spingersi la gamba di lato. Al primo
tentativo non riuscì, al secondo nemmeno. La terza volta il ginocchio
ruotò del tutto, inaspettatamente, e il peso spostato la fece crollare
supina, a eccezione della testa che era rimasta ferma. Il dolore al
piede cessò. Il braccio addormentato iniziò a formicolare e se lo
massaggiò aspettandosi di trovare la mano gelida, invece era
rovente. Aspettò con pazienza che le tornasse la sensibilità, doveva
usare entrambe le mani per riuscire a girarsi la testa.
E se ho una commozione cerebrale?
La prima cosa che insegnavano ai corsi di pronto soccorso era di
non spostare mai la testa in caso di incidente, però se non si
guardava intorno non avrebbe potuto capire dove si trovava. Si
appoggiò le mani sulle guance, strinse e iniziò a ruotare il capo
lentamente. Niente dolore ma rimaneva la sensazione che fosse
pesantissimo. Guardò in alto e non vide il cielo. Nemmeno un
soffitto, sembrava piuttosto una tettoia di legno. Come c’era finita
sotto una tettoia, se aveva avuto un incidente? Quei pochi movimenti
le fecero fluire meglio il sangue e iniziò a sentirsi più sveglia.
Forse mi hanno aggredita.
Alzò la mano e si controllò l’anello. C’era, e aveva ancora indosso
il vestito verde che si era messa quella mattina. Provò a muovere i
piedi
sono senza scarpe
e poi le gambe. Funzionavano, ma a rilento. Si sollevò il vestito e
tastò i collant sopra gli slip. Le sembrava tutto a posto, nessun
indolenzimento, solo una voglia urgente di fare pipì. Provò a piegare
in qualche modo le ginocchia per progettare di alzarsi ma non
riusciva a coordinare i movimenti.
Perché non ho forze?
Improvvisamente si concentrò sull’odore.
L’aria era ferma, fredda eppure pesante, non si trovava all’aperto.
E quell’odore era dappertutto, familiare ma indefinibile allo stesso
tempo, spiacevole. Le vennero in mente i mobili plastificati di sua
nonna, ancora con la pellicola appiccicata sopra. Sapevano di
taverna dal soffitto basso, di angoli scrostati, di muffa. Lì dentro
dove?
c’era esattamente lo stesso odore. Legno vecchio, stantio, gonfio
di umidità. Appoggiò le mani a terra e toccò delle assi grezze. Pensò
ai bancali dei mercati, ma i bancali dei mercati non avevano le
sbarre.
Sbarre? Perché sbarre?
Il cuore iniziò ad accelerarle. Era stato un pensiero spontaneo,
venuto non si sa da dove. Batté gli occhi due o tre volte, la vista
iniziava a snebbiarsi.
Le ho viste.
Sapeva, sapeva di sapere, il cervello le aveva riconosciute
quando lei non era consapevole di guardarle e l’informazione era
arrivata solo adesso. Le sbarre erano quelle righe senza senso,
orizzontali perché le aveva guardate mentre era sdraiata, ma se le
avesse viste in piedi non avrebbe avuto dubbi. Inspirò, chiuse gli
occhi e trattenne il fiato. Ebbe un giramento, aspettò che passasse,
prese coraggio e sollevò con tutte le forze la spalla destra,
spingendo il busto di lato. Sperava che la testa lo seguisse e questa
volta fu facile. Ruotò di nuovo sul fianco cadendo quasi bocconi e
sbattendo il naso a terra. Inspirò l’odore direttamente dalla fonte, un
sentore di noci che marcivano sotto la pioggia, legno in cancrena. Il
piede sinistro riprese a farle male ma non cercò di spostare la
gamba. Appoggiò entrambe le mani a terra e strisciò in avanti. Una
cosa da niente, pochi centimetri, ma dovette fermarsi a riprendere
fiato. Restava con gli occhi chiusi, il naso a terra, il palmi graffiati
dalle assi ruvide. Un nuovo sforzo, un altro palmo guadagnato,
un’altra pausa.
Che cazzo sto facendo?
Si preparava a darsi ancora una spinta quando una carezza le
sfiorò la fronte. Si trattenne. Poi lasciò che il collo si allungasse
appoggiandosi al metallo freddo. Sentì il panico che le si
arrampicava dentro e cercò di frenarlo con un ultimo pensiero.
Forse sto ancora dormendo.
Poi aprì gli occhi.
E le sbarre erano lì.
È sveglia.
Ha fatto presto.
La gabbia era enorme, larga come un camion, un buco nero
attraversato da un pettine di ferro. Lungo tutta la sua imponenza
correva un bordo di stucco, forse un tempo di colore dorato, spento
e pieno di smangiature. Il legno del cassone tra il ferro e lo stucco
era stato dipinto di rosso e decorato con sbaffi di riccioli e foglie
stilizzate. Sotto la base c’era un telaio di metallo arrugginito con
quattro grosse ruote. In cima, incorniciata di rosso, troneggiava in
enormi caratteri scuri la scritta
лев
Anna la guardava, la guardava, non riusciva a smettere di
guardarla. Sembrava un’enorme bocca spalancata con la promessa
di divorarti.
Io sono in una bocca uguale.
Era il solo pensiero che le rimbalzava nella mente, perché il
vecchio carrozzone da circo che stava fissando non era il suo, si
trovava oltre le sbarre, a circa cinque metri da lei. Era quello la
macchia nera con i bordi rossi che aveva visto appena sveglia.
Appoggiò le mani a terra e cercò di tirarsi seduta. Aveva ancora il
fiatone, forse per lo sforzo, forse per il panico che stava per
mangiarsela. Era chiusa dentro una gabbia da circo davanti a
un’altra gabbia da circo. Non aveva senso. Rifece velocemente
l’inventario: era debolissima, la testa pesante, le faceva male un
piede ma solo a sinistra, non ci vedeva bene
in mezzo alle gambe, ho dolore in mezzo alle gambe?
e non sentiva nessun dolore in mezzo alle gambe. Cercava i
margini per un equivoco ma non ce n’erano. Nessun incidente
d’auto, nessun riparo di fortuna, era successo qualcos’altro, ed era
successo
quando?
quella mattina stessa, perché il vestito che aveva indosso lo
aveva messo per l’incontro delle dieci. Ma l’incontro non c’era stato,
no, si sforzava di ricordare ma arrivava solo fino a un certo punto. Si
era passata la piastra, era uscita e aveva pensato che l’umidità
avrebbe vanificato il suo lavoro, si era messa a camminare in fretta e
poi...
Basta, non c’era altro.
Forse aveva fatto una telefonata? Non lo sapeva.
Rialzò gli occhi sulla gabbia di fronte. Sembrava vuota. Sentiva il
cuore batterle in tonfi regolari, lenti, pesanti, la sensazione era che
fosse sul punto di fermarsi. Appoggiò il mento alla spalla destra e
guardò indietro. La sua gabbia era grande quasi quanto l’altra,
quattro metri per due circa. Tetto, fondo, tre pareti di legno, sulla
quarta le sbarre. Non c’erano aperture visibili. Non c’era altro, solo
lei.
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