Wuhan Diari da una città chiusa – Fang Fang

SINTESI DEL LIBRO:
Quando sono entrata nel mio account Weibo per scrivere la prima
annotazione del mio diario, di sicuro non pensavo che ne avrei scritte
altre cinquantanove, né mai avrei immaginato che milioni di lettori
sarebbero rimasti svegli fino a tardi, ogni sera, in attesa del mio post.
In tanti mi hanno detto che riuscivano ad andare a dormire solo dopo
aver letto il mio pezzo giornaliero. E inoltre, mai avrei immaginato che
queste annotazioni sarebbero state raccolte in un libro e pubblicate
all’estero tanto velocemente.
Proprio mentre completavo l’ultima, il governo ha annunciato che
l’8 aprile 2020 la città di Wuhan potrà riaprire.
La quarantena a Wuhan è durata in totale settantasei giorni. L’8
aprile è anche la data in cui sui siti web degli Stati Uniti sono state
caricate le informazioni di prevendita dell’edizione americana di
Wuhan. Diari da una città chiusa.
Tutto questo mi sembra un sogno; è come se la mano di Dio stesse
disponendo ogni cosa da dietro le quinte.
II
Il 20 gennaio, quando il dottor Zhong Nanshan, medico specializzato
in malattie infettive, ha rivelato che il nuovo coronavirus poteva
trasmettersi da uomo a uomo, e quando è uscita la notizia che
quattordici dottori erano già stati contagiati, di primo acchito sono
rimasta sconvolta, poi mi sono arrabbiata. Era un’informazione in
netto contrasto con ciò che ci avevano detto fino ad allora. Gli organi
di stampa ufficiali continuavano a dire che il virus «non si trasmette
tra gli esseri umani; l’infezione si può controllare e prevenire».
leggenditaly.com Nel frattempo, circolavano sempre più voci su un
altro coronavirus simile a quello della SARS.
Quando ho saputo che il periodo di incubazione del virus si
aggirava intorno ai quattordici giorni, ho iniziato a fare la lista delle
persone con cui ero entrata in contatto nelle due settimane
precedenti, per capire se correvo il rischio di essere stata contagiata.
Con terrore mi sono ricordata che in quel periodo ero stata in
ospedale tre volte per fare visita a dei colleghi malati. Avevo
indossato la mascherina solamente in due occasioni. Il 7 gennaio
avevo partecipato a una festa organizzata da un amico e in seguito
ero andata a cena con la famiglia. Il 16 gennaio un operaio era
venuto a casa mia a installare la nuova caldaia. Il 19 mia nipote era
arrivata a Wuhan da Singapore, perciò mio fratello maggiore e sua
moglie ci avevano portato fuori a cena, e con noi c’erano anche un
altro mio fratello e sua moglie. Per fortuna stavano già circolando voci
di un nuovo virus, simile a quello della SARS, perciò avevo sempre
indossato la mascherina.
Considerato il mio lavoro, è raro per me uscire così tante volte in
un breve lasso di tempo. Ma del resto era il periodo che precede il
Capodanno lunare, quello in cui le persone tendono a dare feste e a
riunirsi. Una volta messe insieme tutte le informazioni, non sono
riuscita a capire se rischiassi oppure no di essere stata contagiata.
L’unica cosa che potevo fare era contare i giorni, finché non fossero
passate due settimane. Ero davvero sconfortata.
Mia figlia è tornata dal Giappone il 22 gennaio, la sera prima
dell’imposizione della quarantena. Sono andata a prenderla in
aeroporto alle dieci di sera. A quell’ora non c’erano molte macchine in
giro, né gente a piedi. Quando sono arrivata, quasi tutti quelli che
erano lì in attesa del passaggio indossavano la mascherina; c’era
un’atmosfera pesante e tutti sembravano piuttosto agitati. Nessuno
faceva baccano, non si sentivano le persone chiacchierare o ridere
come di solito accade. Erano i giorni del grande panico e terrore per
Wuhan. Prima di uscire, avevo mandato un messaggio a un’amica
per dirle che mi era tornato in mente il verso di una vecchia poesia,
«il vento fischia mentre il gelo cala su Yishui». Poiché il volo era in
ritardo, mia figlia è spuntata dal terminal soltanto verso le undici di
sera.
Il
mio ex marito aveva cenato insieme a lei la settimana
precedente. Qualche giorno prima che l’andassi a prendere, lui mi
aveva chiamato per dirmi che aveva dei problemi ai polmoni. Io mi
sono subito allarmata; se aveva contratto il coronavirus, c’era la
possibilità che anche nostra figlia fosse stata contagiata. Ne ho
parlato con lei e abbiamo deciso che avrebbe fatto meglio a mettersi
in quarantena per almeno una settimana prima di uscire. Questo
significava che non avremmo trascorso il Capodanno insieme. Le ho
detto che le avrei portato qualcosa da mangiare (dal momento che
era stata in vacanza all’estero, non aveva niente di fresco in casa).
Entrambe abbiamo indossato la mascherina in macchina e,
nonostante di solito lei non veda l’ora di raccontarmi dei suoi viaggi,
non ha detto una parola sul Giappone durante il tragitto. Siamo
rimaste in silenzio per tutto il tempo. L’ansia e lo stress che
permeavano la città erano anche lì con noi, nella nostra macchina.
Ho accompagnato mia figlia al suo appartamento e poi, rientrando,
mi sono fermata a fare benzina. Sono tornata a casa all’una di notte.
Non appena sono entrata, ho acceso il computer e ho visto subito la
notizia: era stata ordinata la quarantena con effetto immediato.
Qualcuno aveva già proposto di chiudere la città, ma io ricordo di
aver pensato: come si fa a chiudere una grande città come Wuhan?
Perciò non mi sarei mai aspettata di vederlo succedere.
L’applicazione della misura della quarantena mi ha anche fatto capire
che la malattia infettiva che si stava diffondendo doveva avere già
raggiunto un livello critico.
Il giorno dopo sono uscita per comprare qualche mascherina e per
fare la spesa. Le strade erano deserte. Non credo di averle mai viste
così vuote a Wuhan. Quella desolazione mi ha fatto sentire molto
triste; il mio cuore era vuoto al pari delle strade. Era una sensazione
che non avevo mai provato – una sensazione di incertezza riguardo
al futuro della mia città, incertezza dovuta al fatto di non sapere se io
e i miei famigliari eravamo stati infettati. Mi sentivo molto confusa e in
ansia.
Nei due giorni successivi sono uscita di nuovo in cerca di altre
mascherine, e lungo quelle vie deserte ho incontrato soltanto qualche
solitario netturbino. Essendoci così poche persone in giro, le strade
non erano sporche, ma loro continuavano imperterriti a pulirle. Per
qualche motivo vederli mi ha confortata, mi ha fatto sentire bene.
Tornando a casa continuavo a chiedermi perché, se già si parlava
del virus il 31 dicembre, tutti avevamo continuato a comportarci con
tanta negligenza per venti giorni. Non avremmo dovuto avere
imparato la lezione, dopo l’epidemia di SARS del 2003? Era una
domanda che tante persone si stavano facendo. Perché?
Il motivo è che siamo stati troppo superficiali, e poi sono entrate in
ballo anche le normali modalità di vivere la vita. Ma soprattutto ci
siamo fidati troppo del nostro governo. Eravamo convinti che i
funzionari dell’Hubei non avrebbero mai adottato un atteggiamento
tanto negligente e irresponsabile nel caso in cui le nostre vite fossero
a rischio. Eravamo convinti che non sarebbero stati così attenti al
«politicamente corretto» di fronte a un pericolo che minacciava la vita
di milioni di cittadini. Ed eravamo convinti che fossero dotati di buon
senso e migliori capacità decisionali. È per questo che in una chat di
gruppo ho persino scritto: «Il governo non oserebbe mai nascondere
una cosa così enorme». Ma in realtà, come poi si è visto, parte di
questa catastrofe è riconducibile all’errore umano.
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