Verdi colline d’Africa – Ernest Hemingway

SINTESI DEL LIBRO:
Eravamo seduti nel rifugio costruito dai cacciatori wanderobo con
frasche e ramoscelli al limite del lick
1 salato, quando udimmo
avvicinarsi il camion. Dapprima era molto lontano e non si poteva
capire che rumore fosse; poi si fermò e sperammo di non avere udito
nulla, o solo il vento. Ma riprese lentamente, più vicino e sempre più
rumoroso, non ci poteva essere dubbio ormai, finché terminando in
un fracasso di esplosioni irregolari passò vicinissimo dietro a noi,
proseguendo su per la strada. Uno dei due battitori, quello
melodrammatico, si alzò in piedi.
«È finita» disse.
Misi la mano alla bocca e gli feci cenno di tacere.
«È finita» ripeté, e allargò le braccia. Non mi era mai piaciuto e
ora mi piaceva ancor meno.
«Più tardi» sussurrai. M'Cola scosse il capo. Guardai il suo
cranio calvo e nero: egli girò un poco il viso, sì che scorsi i sottili baffi
da cinese all'angolo della bocca.
«Niente da fare» egli disse. «Hapana m'uzuri.»
«Aspetta un momento» gli dissi. Egli abbassò di nuovo la testa
nascondendola fra i rami secchi, e restammo nella polvere della tana
fino a che venne tanto buio da non poter distinguere il mirino del
fucile. Ma non accadde nulla. Il battitore melodrammatico era
impaziente ed inquieto, un po' prima che l'ultima luce se ne fosse
andata bisbigliò a M'Cola che ormai era troppo tardi per sparare.
«Stai zitto, tu» gli disse M'Cola. «Il "buana" può sparare anche
quando tu non ci vedi più.»
L'altro battitore, quello istruito, diede un'altra prova della sua
istruzione graffiandosi il nome, Abdullah, sulla pelle nera della
gamba con un rametto appuntito. Io lo guardai senza mostrare
alcuna ammirazione e M'Cola osservò la parola scritta con una
faccia assolutamente priva di espressione. Dopo un po' il battitore
cancellò tutto. Mi provai a mirare ancora una volta contro quel poco
di luce che durava e vidi che ormai era inutile, anche con l'apertura
più larga.
M'Cola stava in attesa.
«Niente buono» dissi.
«Già» fece egli in swahili. «Torniamo all'accampamento?»
«Sì.»
Ci alzammo e ci avviammo, fuori dalla tana, e fra gli alberi,
camminando sulla terra sabbiosa, cercando la strada in mezzo alle
piante e sotto i rami, verso la pista. La nostra macchina era a un
miglio di lì, sulla strada, e come le giungemmo vicino, Kamau, il
guidatore, accese i fari.
Quel camion aveva guastato tutto. Il pomeriggio avevamo
lasciato la macchina sulla strada e ci eravamo avvicinati al lick con
ogni precauzione. Il giorno prima era piovuto un po', ma non tanto da
sommergere il lick, che si riduceva ad una radura fra gli alberi con un
pezzo di terra scavata a circoli fondi, e incisa agli orli da solchi dove
gli animali in cerca di sale avevano leccato nel fango. Avevamo
veduto le lunghe peste fresche a forma di cuore di quattro grandi
kudù maschi che erano venuti al lick la notte avanti ed orme più
recenti di kudù meno grossi. C'era anche un rinoceronte che, a
giudicare dalle orme e dal cumulo di paglia e di stereo buttato all'aria
con le zampe, doveva venire ogni notte. Il rifugio era stato costruito a
tiro di fucile dal lick e io, seduto a schiena curva, le ginocchia alte e
la testa bassa, nella buca piena di cenere e di polvere, alla posta fra
le foglie secche e i rami fragili, avevo visto un kudù uscire dalla
macchia, dirigersi alla radura dove c'era il lick e fermarsi: era grigio e
bello, aveva il collo forte e le corna curve contro il sole; mirai al suo
petto, ma rinunciai a sparare per non impaurire il kudù più grande
che doveva venire al tramonto. Ma il kudù sentì il camion ancor
prima di noi e scappò via fra le piante; ogni altro animale che fosse
stato in moto per venire al lick dalla boscaglia o dalla pianura o
scendendo frammezzo agli alberi delle piccole colline, si doveva
essere arrestato a quello sferragliare esplosivo. Sarebbero venuti più
tardi, nel buio, troppo tardi per noi.
Ed ora ce ne andavamo in macchina per la pista sabbiosa, le luci
dei fari sbattevano sugli occhi degli uccelli notturni che stavano
accucciati nella sabbia sino a che la mole dell'auto era sopra di loro,
e allora si levavano in volo mollemente, impauriti; e oltrepassavano i
fuochi dei viaggiatori che muovevano per tutto il giorno verso
occidente, abbandonando le terre colpite dalla carestia che si
stendevano dinanzi a noi; io, seduto col calcio del fucile fra i piedi, la
canna nella piega del braccio sinistro e una fiaschetta di whisky fra
le ginocchia, ne versai in una tazza di latta facendola passare nel
buio sopra le mie spalle a M'Cola perché vi versasse dell'acqua da
una borraccia, e lo bevvi, il primo whisky della giornata, che è anche
il migliore, e guardavo la fitta boscaglia nel buio, aspirando il fresco
vento notturno e il buon odore d'Africa, felice.
Ed ecco che dinanzi a noi vedemmo un grande fuoco, e come
passavamo e procedevamo oltre, scoprii un camion a fianco della
strada. Dissi a Kamau di fermare e tornare indietro, e mentre
indietreggiavamo, vidi nella luce del fuoco un uomo piccolo e con le
gambe storte, cappello tirolese in testa, calzoncini di pelle e camicia
aperta, fermo davanti a un motore scoperto, in mezzo a un nugolo
d'indigeni.
«Serve niente?» gli chiesi.
«No» egli rispose. «A meno che lei non sia un meccanico. Mi ha
preso in antipatia, tutti i motori mi hanno in antipatia.»
«Ha dato un'occhiata al distributore? Quando ci è passato
davanti faceva un rumore come se dovesse trattarsi del
distributore.»
«Dev'essere qualcosa di molto peggio. Era un rumore tutt'altro
che promettente.»
«Se può venire sino al nostro accampamento, noi abbiamo un
meccanico.»
«Quanto è lontano?»
«Circa venti miglia.»
«Mi ci proverò domattina. Adesso ho paura a farlo proseguire con
quel rumore di morte dentro la pancia. Ora sta cercando di morire
perché mi ha preso in antipatia. Anch'io lo detesto, però se fossi io a
morire a lui non gliene importerebbe un bel niente.»
«Vuol bere?» Gli tesi la fiaschetta. «Mi chiamo Hemingway.»
«Kandisky» egli disse inchinandosi. «Hemingway non è un nome
nuovo per me, ma dove diavolo l'ho udito? Ah, sì. Il 'Dichter'. Lei
conosce Hemingway il poeta?»
«Dove l'ha letto?»
«Sul 'Querschnitt'.»
«Sono io» dissi compiaciuto. Il 'Querschnitt' era una rivista
tedesca per la quale avevo scritto delle poesie piuttosto oscene, e
nella quale avevo pubblicato un lungo racconto, molto prima di poter
collocare un solo rigo in America.
«È molto strano» disse l'uomo dal cappello tirolese. «E mi dica,
di Ringelnatz che ne pensa?»
«È splendido.»
«Così Ringelnatz le piace. Bene. E di Heinrich Mann che ne
pensa?»
«Non mi va.»
«Veramente?»
«So che non riesco a leggerlo, ecco tutto.»
«Non vale proprio niente. Vedo che abbiamo delle cose in
comune. E qui che sta facendo?»
«Vado a caccia.»
«Non d'avorio, spero.»
«No, di kudù.»
«Ma come mai c'è gente che va a caccia di kudù? Anche lei, che
è un uomo intelligente, un poeta, uccidere dei kudù!»
«Non ne ho ancora ucciso uno» dissi. «Ma stiamo dando loro
una caccia accanita da dieci giorni, e se non fosse stato il suo
camion, questa notte uno lo prendevamo di sicuro.»
«Quel povero camion. Bisognerebbe andare a caccia per un
anno di seguito, alla fine se ne sono ammazzati d'ogni colore, e ci
rincresce di averlo fatto. È una sciocchezza voler andare a caccia di
un animale solo. Lei perché lo fa?»
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