Vengo a prenderti – Paola Barbato

SINTESI DEL LIBRO:
«Sta uscendo!»
«Eccolo!»
«Arriva! Arriva!»
I flash avevano illuminato a giorno la facciata del commissariato
di Sassuolo. I due agenti usciti per primi avevano strizzato gli occhi,
il terzo no. Aveva tenuto la testa bassa, un berre o calato sulle
orecchie, le spalle a malapena coperte da un giubbo o troppo
piccolo per lui, ma era l’unico che avevano trovato.
«Agente Caparzo! Agente Caparzo, guardi qui!»
Gli altri due si erano fa i da parte e lui era stato investito dalle
luci, gli obie ivi, i continui richiami.
«Caparzo! Caparzo! Francesco! Che cos’ha da dire? Ha una
dichiarazione da fare?»
Così lui aveva alzato gli occhi, limpidi, azzurrissimi, e aveva
sollevato appena una mano. Subito si era fa o silenzio.
«Scusate. Non sono un uomo studiato, non sono bravo a parlare.
Non vi devo dichiarare niente, non ho fa o niente che i miei colleghi
al posto mio non facevano. Non mi pensate grande, ho fa o solo il
mio lavoro.»
Era seguito un nuovo boato di voci e luci, ma lui non aveva
indugiato e si era infilato nella ressa di corpi e telecamere, sve ando
su tu i, gigantesco. Quelle poche parole, umili e sgrammaticate,
sarebbero bastate. Come già accaduto a un Papa che non conosceva
bene la lingua e aveva chiesto con modestia di essere corre o, nella
primavera del 2018 l’agente Francesco Caparzo con la sua umiltà era
entrato nel cuore di tu i gli italiani. Fino al giorno prima veniva
considerato dai colleghi del piccolo commissariato di Firenze in cui
lavorava come un gigante innocuo, trasferito anni prima dalla Celere
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di Napoli per comportamenti violenti, ma sempre tranquillo alla sua
scrivania, diligente, schivo. Quella no e di un febbraio veramente
freddo, invece, si era trasformato in un eroe leggendario di cui si
sarebbe parlato per anni e anni. Sulla carta non aveva il physique du
rôle, a meno che non lo si volesse accostare a certi supereroi massicci,
come Hulk o La Cosa: era un uomo di quasi cinquant’anni, enorme,
taurino, i capelli rasati a zero e un’espressione bolsa negli occhi
chiari, nascosti da tanta carne. Ma quella montagna d’uomo, da solo
e armato esclusivamente della pistola d’ordinanza, aveva ucciso uno
dei peggiori criminali della storia del paese e salvato nove delle sue
vi ime. Salito sulla volante che lo avrebbe riportato a casa, si era
girato per guardare un’ultima volta la folla di giornalisti che lo
avevano a eso per ore davanti a quel commissariato di provincia in
cui aveva rilasciato il proprio memoriale. Era stato allora che
qualcuno aveva sca ato la foto che sarebbe poi diventata iconica,
mostrata sempre per prima sui motori di ricerca. Il viso di tre quarti,
le labbra tese, gli occhi che vagavano in cerca di qualcosa in
un’espressione tra l’ispirato e il mistico. La foto giusta può fare
molto. Può far dimenticare al popolo le origini modestissime,
l’ignoranza e l’inadeguatezza a parlare in pubblico, le voci su
trascorsi non proprio edificanti, le ombre sul proprio operato.
La gente ha sempre bisogno di eroi.
È per questo che crea i mostri.
«Ma stiamo scherzando? Un anno di indagini e quell’animale si
prende tu i i meriti?»
L’ispe ore Patrizio Ridenti, della Questura di Firenze, era a
colloquio privato con il vice questore aggiunto Angelo Gambino.
Quello che si era presentato come il più grande caso di omicidio,
sequestro di persona plurimo e sevizie degli ultimi trent’anni era
scoppiato loro in faccia cogliendoli del tu o impreparati. A
peggiorare la situazione c’era il fa o di essere stati messi in ombra
da un loro agente, che in teoria non avrebbe dovuto avvicinarsi
nemmeno per sbaglio a un caso simile.
«Caparzo è un eroe come io sono una ballerina! È ignorante come
la malta, non sa nemmeno parlare in italiano, si esprime in una
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lingua tu a sua. Un passacarte che non aveva nessuna idea di quello
che stava facendo.»
Gambino fece cenno a Ridenti di abbassare la voce.
«Tu hai ragione, Patrizio. Ma ormai è andata così.»
«Andata così un cazzo! E non gli fanno nemmeno un richiamo?
Tu lo sai come ci è arrivato, laggiù? Se ci me iamo a scavare vedi
quante magagne escono fuori, te lo dico io.»
«Ma noi non ci me eremo a scavare.»
Gambino cercava di restare calmo, quel caso era troppo
importante, non sarebbero mai riusciti a ritagliarsene una fe a se
alcuni, tra vi ime e carnefici, non fossero stati proprio di Firenze. Per
tenerselo stre o ci voleva estrema cautela.
«Caparzo lavora per noi e questo ci me e in una posizione di
vantaggio.»
«Ma che lavora e lavora, sono anni che non fa un appostamento,
un giro nella volante, sta sempre chiuso in ufficio.»
«Ce lo avete chiuso voi, in ufficio.»
«E cosa dovevamo fare? Ma lo sai i danni che ha fa o a Napoli?
Lo sai che lo chiamavano “la Bestia”? Meglio tenerlo fuori dalla zona
calda uno così, dammi re a.»
Gambino in realtà aveva saputo dell’esistenza di Francesco
Caparzo solo quella ma ina, quando era stato bu ato giù dal le o
da una telefonata del questore, a sua volta conta ato da sfere più
alte.
«Uno dei tuoi ha ammazzato un serial killer!»
gli aveva de o, e anche se la realtà non era proprio così la prima
cosa che si era premurato di fare era controllare subito chi fosse
quell’“uno dei suoi”, per non scoprire poi che pubblicava su
Facebook foto imbarazzanti o che aveva passioni scomode. Invece
Caparzo sui social proprio non esisteva e il primo giro di telefonate
gli aveva restituito informazioni confortanti, confermate di fa o
anche da Ridenti. Caparzo era un bifolco inoffensivo che, sì, in
gioventù aveva commesso qualche sbaglio, ma ora si era dato una
calmata e il suo sovrintendente lo descriveva come un elemento
integerrimo, di una diri ura morale assoluta. Insomma, tu o
sommato che il bifolco passasse per salvatore della patria non era
neanche un male.
«Direi che così come siamo messi non abbiamo alternative. Ci
teniamo Caparzo eroe e andiamo avanti.»
«Quello non è un eroe, Angelo» aveva insistito un’ultima volta
l’ispe ore.
«Ma li ha trovati lui, Patrizio. Non tu, non io, non chiunque sia
passato per quelle strade di campagna negli ultimi sei anni.
Se antadue mesi che questa storia andava avanti e non se n’era
accorto nessuno. Dodici fascicoli d’indagine aperti, appelli in tv,
persino un libro, e non un’anima che avesse mai sospe ato che
fossero lì. E ci starebbero ancora, se non fosse stato per lui.»
«È stato un caso, li ha trovati per sbaglio, gli è andata di culo!»
borbo ò Ridenti.
«Esa o. E il culo era il suo. Fa ene una ragione, Patrizio,
Francesco Caparzo è l’uomo del momento, e tu non puoi farci
niente.»
Aggio sbagliato.
Non aveva bisogno di andare alla finestra e di guardare in strada
per sapere che erano ancora tu i lì ad aspe arlo, facendo domande
ai vicini e fotografando il campanello. Erano così, i giornalisti,
prevedibili, facevano sempre le stesse cose. Se avesse voluto sarebbe
potuto uscire dai garage o dal retro del caseggiato, se ne sarebbero
accorti troppo tardi, bastava accendere una luce in casa, magari in
bagno, per far calare l’a enzione. Ma non gli importava niente di
loro, non di sfuggirgli, non di parlarci, per lui questa ondata di fama
e di gloria non era niente.
Aggio sbagliato.
Francesco Caparzo era solo un agente e sarebbe rimasto un agente
per tu a la vita, non c’erano margini di carriera per quelli come lui,
non aveva né i titoli né lo stato di servizio necessario. Non che fosse
un problema, della carriera non gliene importava niente. Tu i
avevano sempre creduto che avesse il destino scolpito addosso, figlio
di delinquenti, cresciuto nell’ignoranza, la violenza come unico
linguaggio conosciuto, c’era una sola strada. E invece no, Caparzo
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aveva deciso di essere altro, era entrato a fatica nella divisa da
polizio o e ancor più in un codice di regole che non riusciva a
capire, perché sapeva che era tu a una questione di volontà. Poteva
essere e poteva diventare. Non era andata sempre bene, si era
guadagnato quel soprannome banale, “la Bestia”, ma aveva
imparato ad aggiustare il tiro, a gestire una natura di cui sentiva di
non avere alcuna colpa, ad abbandonare il manganello e abbracciare
la macchina da scrivere, in a esa che arrivasse qualcosa per lui,
l’occasione di dimostrare che poteva essere diverso. Non aveva
ambizioni di pezzi di carta o stelle e, lui voleva ciò che gli era stato
negato da sempre: la stima, il rispe o, l’ammirazione. Voleva che
quando la gente lo guardava non vedesse un energumeno capace di
stritolargli il collo con una mano, ma un esempio, un modello,
un’ispirazione. Francesco Caparzo voleva essere un eroe.
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