Vendetta privata – Paolo Pinna Parpaglia

SINTESI DEL LIBRO:
Aurelio Sinda venne svegliato da un rumore che graffiava il
silenzio del bosco. Avvolto nel buio della cavità di quattro metri
quadrati scavata sottoterra aprì gli occhi e vide nero. Rimase
sdraiato e si concentrò sul rumore. Aurelio non sapeva dove si
trovasse, era stato portato in quel luogo alcune settimane prima e si
era convinto di essere in un bosco sentendo i versi degli animali che
gli tenevano compagnia durante le lunghe ore di intollerabile apatia.
Anche l’odore che ancora riusciva a distinguere oltre l’olezzo del suo
corpo era quello di piante, natura, terra bagnata. Nonostante fosse
nato e vissuto in una grande città, l’udito e l’olfatto riconoscevano
come noti suoni e odori mai percepiti prima, come se dentro di sé
possedesse una serie di cognizioni di base che non hanno bisogno
dell’esperienza.
Odori, suoni e sensazioni che Aurelio non aveva mai sentito prima
di essere rapito.
Era successo tre mesi prima, ad agosto, all’esterno della villa di
Porto Rotondo che il padre aveva acquistato per una manciata di
euro da Mario Redaelli, un imprenditore sommerso dai debiti. Gli era
rimasta solo la villa in Costa Smeralda, destinata a essere pignorata
dalle banche. Quella tra Giampiero Sinda e Mario Redaelli era stata
una trattativa semplice, davanti a un caffè in un bar di piazza Duomo
a Milano con l’assegno ben visibile tra loro due.
«Ne vale almeno il triplo», aveva detto Redaelli ostentando una
sicurezza che non possedeva, quasi emozionato davanti a quella
cifra che gli avrebbe consentito di evitare la catastrofe e il suicidio.
Giampiero Sinda aveva ripreso l’assegno, l’aveva riposto nella
tasca interna della giacca e si era alzato. «Ti aspetto nello studio del
notaio Galassi, attendo dieci minuti, poi vado via».
Non era necessario aggiungere altro, entrambi sapevano che
anche cercando nuovi acquirenti l’affare non si sarebbe potuto
definire prima di qualche settimana, forse mesi, mentre Redaelli
aveva bisogno di quei soldi subito. Giampiero Sinda e Mario Redaelli
si conoscevano da trent’anni, potevano definirsi quasi amici, ma
quello era il loro mondo, il loro acquario dove il pesce più grosso
mangia quello più piccolo. E Sinda era lo squalo che avrebbe potuto
offrire anche molto meno sapendo che l’altro avrebbe comunque
accettato. In quell’occasione si era sentito quasi un benefattore.
Redaelli si era presentato dal notaio Galassi, aveva firmato l’atto di
vendita e la villa di Porto Rotondo era passata di proprietà.
Giampiero Sinda da ormai vent’anni si concedeva due settimane
di vacanze all’anno, una a cavallo di ferragosto a Portofino e una
subito dopo capodanno a Chamonix. Il resto dell’anno lo passava nei
suoi uffici milanesi impegnato a produrre denaro. Nelle intenzioni di
Sinda la villa di Porto Rotondo avrebbe dovuto ospitare i clienti più
ostici, quelli meno propensi ad accettare alcune clausole contrattuali,
quelli da ammorbidire prima di affondare la stoccata: una settimana
d’agosto in una villa in Costa Smeralda con piscina e servitù era uno
dei tanti modi in cui era possibile agevolare la definizione di un
contratto.
Dopo l’esame di maturità, Aurelio si era trasferito da solo nella villa
per trascorrere l’estate prima di darci sotto con l’università. Alla
Bocconi avrebbe imparato a chiudere contratti senza bisogno di
regalare soggiorni in Sardegna.
Durante l’estate gli amici di Aurelio avevano usato la villa come un
bene comune, andavano e venivano da Milano senza neanche
avvisarlo. E non solo gli amici: compariva alla sua porta gente
appena intravista al liceo, parenti lontani o amici di amici ai quali
qualcuno aveva detto che da lui si poteva stare comodi per qualche
giorno. Aurelio ospitava tutti. Quella era la sua estate della maturità,
l’ultima vera festa lontano da regole, divieti e prescrizioni, un
continuo party da trascorrere in un posto da favola circondato da
persone del suo ambiente.
In due mesi d’estate non ricordava di essere mai andato a dormire
prima dell’alba, era diventato il migliore amico di decine di persone
che avrebbe dimenticato presto. Aveva arricchito bar, ristoranti e
locali prendendo alla lettera quanto gli aveva detto il padre in
aeroporto quando si stava imbarcando per la Sardegna: «Questo è il
mio regalo, goditela come se fosse la tua ultima estate, perché
l’anno prossimo o studi o ti mando in fabbrica a spaccarti la schiena
come l’ultimo dei miei negri». E guardandolo seriamente gli aveva
consegnato una carta di credito che dopo appena due mesi portava
evidenti i segni dell’usura.
All’indubbio fascino dei soldi, Aurelio univa anche un bel volto dai
lineamenti decisi attenuati dalla freschezza dei diciotto anni e un
fisico asciutto e ben proporzionato. Il mix di fascino e potere
l’avevano reso una preda sempre ambita e sempre catturata ogni
sera.
Era stato catturato per l’ultima volta la mattina del 26 agosto. Il
sole era pronto a spuntare sul mar Tirreno e Aurelio stava tornando
a casa dopo una serata passata in una discoteca di Porto Cervo. Il
taxi l’aveva lasciato davanti alla villa ed era ripartito prima che
Aurelio fosse entrato in casa. Era da solo, forse l’unica volta in tutta
l’estate, ma non per caso. Sua madre aveva deciso di trascorrere
qualche giorno in Sardegna e sarebbe arrivata la mattina
successiva. Meglio fare i bravi, aveva pensato Aurelio che aveva
anche il desiderio di riposarsi e passare qualche giorno di vacanza a
ritmi normali. Mentre armeggiava con il mazzo di chiavi alla ricerca di
quella giusta, una macchina sportiva con i vetri oscurati si era
fermata alle sue spalle. Il finestrino del guidatore si era abbassato e
dall’interno una voce calma e atonale l’aveva chiamato.
«Aurelio».
Aurelio si era voltato. Aveva immaginato che fosse qualcuno che
voleva continuare la serata da lui, come succedeva spesso. Sedersi
nel patio e guardare il sole spuntare al di là del mare sorseggiando
l’ultima birra della nottata.
«Mi spiace ragazzi, domani arriva mia madre. Devo svegliarmi
presto», aveva risposto Aurelio senza neanche preoccuparsi di
riconoscere il proprietario della voce.
La portiera posteriore si era aperta. Dalla siepe di oleandri alle
spalle di Aurelio era uscito un uomo che l’aveva spinto con violenza
dentro la macchina. La portiera era stata richiusa e l’auto era ripartita
dolcemente.
Il tutto era durato pochi secondi. Non un rumore, non un grido. Era
stato un lavoro veloce e pulito. Aurelio si era ritrovato immobilizzato
da quattro mani.
«Se urli o se cerchi di scappare ti tolgo un occhio. Pagheranno lo
stesso anche se sei mezzo cieco».
Era una voce dall’accento sardo, duro, come di qualcuno che
parla tenendo i denti stretti. Nei due mesi trascorsi in Sardegna
aveva frequentato solo turisti, raramente aveva avuto modo di
parlare con persone del posto e quelle poche con cui si era
intrattenuto avevano un accento diverso da quello che aveva appena
sentito. La cadenza del luogo era morbida e cantilenata, mentre
l’uomo che l’aveva minacciato parlava come chi sembra arrabbiato
anche mentre pronuncia una frase d’amore alla sua fidanzata.
Aveva compreso che non aveva senso provare a ribellarsi e si era
trattenuto dalla voglia di piangere.
Dopo dieci minuti Aurelio aveva sentito la macchina cambiare
bruscamente direzione e immettersi in una strada dissestata. Poi si
era fermata. I due uomini che lo immobilizzavano gli avevano messo
un cappuccio in testa e gli avevano legato le mani e i piedi. Era stato
preso di peso e trasferito in un furgone in cui era stato ricavato un
doppio fondo nel cassone.
Aurelio non aveva potuto vedere la macchina sportiva andare a
fuoco mentre il furgone si dirigeva verso il primo dei nascondigli.
Adesso sentiva un rumore diverso, qualcosa di simile a un verso
gutturale che si avvicinava. Erano colpi di tosse soffocati e passi
sulle foglie. Forse era una squadra di soccorso, una pattuglia di
carabinieri, un bracconiere o un essere umano qualsiasi e allora
avrebbe potuto urlare per farsi trovare. Ma non lo fece. Non dopo
quello che era successo la prima volta. Glielo avevano detto dal
primo momento. I carcerieri non parlavano molto, solo lo stretto
indispensabile per dare le informazioni base, e Aurelio aveva presto
capito che erano uomini abituati a non sprecare parole. Il giorno del
rapimento gli avevano dettato la prima e unica regola: «Non urlare e
non cercare di scappare. Mai».
Il
secondo giorno, quando aveva sentito un rumore di passi
all’esterno, aveva gridato con tutte le sue forze. La botola si era
socchiusa. «Mettiti il cappuccio», si era sentito dire. Aurelio aveva
obbedito e due uomini erano scesi nel rifugio. L’avevano spogliato e
picchiato a lungo con un bastone sottile. Poi avevano tolto il
materasso, le coperte e il secchio per le deiezioni. L’avevano
lasciato nudo, pesto e sanguinante, incatenato al muro in una grotta
minuscola scavata nella terra viva. Andando via uno gli aveva
ricordato che non doveva gridare.
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