Resistere non serve a niente – Walter Siti

SINTESI DEL LIBRO:
Dalla strada di bonifica che incrocia la Pontina, un sentiero bianco e
perpendicolare conduce allo slargo dove un’unica quercia ospita sotto la sua
ombra cinque-sei auto di grossa cilindrata e un camioncino Iveco. I partecipanti
alla riunione sono già tutti nel caseificio, tranne due nervosissimi che sbattono
la portiera e corrono dentro bestemmiando. Dentro c’è il silenzio delle grandi
occasioni, i commercianti raccolti a gruppi parlottano piano; il condannato è
già seduto su una sedia da stalla, la schiena rigida contro la spalliera. Ma la
compostezza del rito è interrotta da un «famme cacà» – il condannato ha
bisogno di andare al gabinetto e uno dei due manigoldi che gli stavano ai lati
(entrambi vestiti di scuro, con due cravatte Gattinoni che significano “io sono
qui straniero e di passaggio”) l’accompagna in fondo dietro un tramezzo, al
cesso delle operaie. Approfittando del siparietto uno dei più buffoni sale sulla
seggiola e declama, mimando un microfono, «io vi perdòno, ma voi dovete
mettervi in ginócchio, tutti, in ginócchio…» – fa la voce da castrato o da donna,
parodiando l’accento siciliano; poi finge di svenire tra le braccia e le risate
degli altri.
Il leader alza un braccio e i presenti ammutoliscono perché il condannato sta
rientrando a riprendere il suo posto; da lontano si sente il vagire di un bufaletto
appena nato, coi brandelli di placenta ancora tra le zampe. Viene avanti il
volontario, l’esecutore che deve riscattarsi; sputa due volte per terra e calpesta i
propri sputi. Quando è alle spalle del condannato estrae dalla tasca la corda
cerata, una di quelle con cui si appendono i caciocavalli; subito gli si propone
un problema tecnico, se avvolgerla sopra o sotto il pomo d’Adamo; prova e
riprova, tra i commenti soffocati. Poi, mentre i due compari tengono il
condannato per le braccia guardando altrove, stringe – per un tempo
incalcolabile teme di non avere abbastanza forza, le nocche gli si fanno bianche
ed escono contemporaneamente due urli che sfidano i secoli: «dài» cominciato
dalla vittima e prolungato («daa-aààiii») dal carnefice. Un rivolo sottile di
sangue esce dall’orecchio sinistro del garrotato; con fretta forse eccessiva si
affollano in parecchi a controllare. Temendo che il cadavere si irrigidisca, o più
probabilmente per sfregio, gli tolgono pantaloni e mutande mentre ancora sta
seduto; nessuno ride più, si guardano per confermarsi l’un l’altro di essere nel
giusto.
Uscendo alla spicciolata ricominciano a distrarsi, la gerarchia dei fatti si
aggroviglia; infamia ed espiazione si accavallano per dare somma zero –
qualcuno butta l’occhio alla glassa rossastra spalmata tra gli eucalipti verso
mare: «a Rafé je fusse piaciuto ’stu tramonto». L’aria è fresca, lunghi sfilacci di
nuvole striano il cielo, rivangano il futuro. Uccidere è una fede
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