Un soffio di vita – Clarice Lispector

SINTESI DEL LIBRO:
«Voglio scrivere movimento puro»
Questo non è un lamento, è un grido di uccello rapace.
Iridato e inquieto. Il bacio sul volto morto.
Scrivo come se fosse in gioco la vita di qualcuno.
Probabilmente la mia stessa vita. Vivere è una specie di follia
che la morte commette. Che vivano i morti perché viviamo in
loro.
D’improvviso le cose non hanno più bisogno di avere un
senso. Mi accontento di essere. Tu sei? Sono sicuro di sì. Il
non senso delle cose suscita in me un sorriso compiaciuto.
Senza dubbio tutto deve continuare a essere quello che è.
Oggi è un giorno da nulla. Oggi è tempo zero. Esiste per
caso un numero che non è nulla? Che è meno di zero? Che
comincia in ciò che non è mai cominciato perché era da
sempre? Ed era prima di sempre? Mi appiglio a questa
assenza vitale e ringiovanisco interamente, al contempo
contenuto e totale. Rotondo senza inizio né fine, sono il
punto prima dello zero e del punto finale. Dallo zero
all’infinito camminerò senza fermarmi. Ma allo stesso tempo
tutto è così passeggero. Io sono sempre esistito e di colpo
non ero più. Il giorno là fuori scorre a caso e ci sono abissi di
silenzio in me. L’ombra della mia anima è il corpo. Il corpo è
l’ombra della mia anima. Questo libro è l’ombra di me.
Chiedo il permesso di passare. Mi sento in colpa se non vi
obbedisco. Sono felice nel momento sbagliato. Infelice
quando tutti ballano. Mi hanno detto che gli storpi esultano e
mi hanno anche detto che i ciechi gioiscono. È che i
poveretti si compensano l’un l’altro.
La vita non è mai stata così al presente come oggi: in un
batter d’occhio è il futuro. Tempo per me significa
disgregazione della materia. L’imputridimento di ciò che è
organico, come se il tempo fosse un verme dentro a un frutto
e andasse rubandogli l’intera polpa. Il tempo non esiste. Ciò
che chiamiamo tempo è il movimento di evoluzione delle
cose, ma il tempo in sé non esiste. Oppure esiste,
immutabile, e in esso ci trasferiamo. Il tempo passa troppo in
fretta e la vita è così corta. Dunque – affinché io non venga
inghiottito dalla voracità delle ore e dalle novità che fanno
passare il tempo in fretta – coltivo un certo tedio. Mi
assaporo così ogni detestabile minuto. E coltivo inoltre il
silenzio vuoto dell’eternità della specie. Voglio vivere molti
minuti in un solo minuto. Voglio moltiplicarmi per arrivare
ad abbracciare territori desertici che diano un’idea di
immobilità eterna. Nell’eternità il tempo non esiste. Notte e
giorno sono opposti perché sono il tempo e il tempo non si
divide. Da ora in avanti il tempo sarà sempre al presente.
Oggi è oggi. Nutro meraviglia e insieme sospetto per quanto
mi vien dato. E domani avrò nuovamente un oggi. Vivere
l’oggi ha qualcosa di doloroso e struggente. Il parossismo
della più sottile ed estrema nota di violino insistente. Ma
esiste l’abitudine e l’abitudine anestetizza. Il pungiglione
d’ape dell’oggi in fiore. Grazie a Dio, ho di che cibarmi. Il
nostro pane quotidiano.
si
Vorrei scrivere un libro. Ma dove sono le parole? I
significati
sono svuotati. Come dei sordomuti,
comunichiamo con le mani. Vorrei mi si concedesse di
scrivere a ritmo arpeggiato e agreste i rottami della parola.
E liberarmi dall’essere discorsivo. Così: inquinamento.
Scrivo o non scrivo?
Saper desistere. Abbandonare o non abbandonare – ecco,
spesso, il dilemma di un giocatore. L’arte di abbandonare
non si insegna. E non è affatto rara la situazione angosciosa
in cui devo decidere se ha senso continuare a giocare. Sarò
capace di abbandonare nobilmente? O sono di quelli che
continuano testardamente a giocare sperando che succeda
qualcosa? Per esempio, la fine del mondo? O qualsiasi altra
cosa, come la mia morte improvvisa, ipotesi che renderebbe
superflua la mia scelta.
Non voglio scommettere su me stesso. Un fatto. Che cos’è
che diventa un fatto? Devo interessarmi agli accadimenti?
Forse mi abbasserò al punto da riempire la pagina di
informazioni sui «fatti»? Devo immaginare una storia o dare
libero corso all’ispirazione caotica? Parecchia falsa
ispirazione. E se poi arriva quella vera e io non me ne
accorgo? Sarà poi così orribile volersi avvicinare, dentro di
sé, al limpido io? Solo quando l’io smette di esistere, di
rivendicare qualcosa, quando comincia a far parte
dell’albero della vita – sì, è per raggiungere questo fine che
lotto.
Dimenticarsi di sé e tuttavia vivere molto
intensamente.
Ho paura di scrivere. È molto pericoloso. Chi ci ha provato,
lo sa. Pericolo di interferire con ciò che è nascosto – e il
mondo non è in superficie, si trova nascosto nelle sue radici
sommerse nelle profondità del mare. Per scrivere devo
collocarmi nel vuoto. È in questo vuoto che esisto
intuitivamente. Ma è un vuoto terribilmente pericoloso: da
esso spremo sangue. Sono uno scrittore che teme le trappole
delle parole: le parole che dico ne celano altre – quali sono?
Forse le dirò. Scrivere è una pietra gettata in un pozzo
profondo.
Meditazione leggera e tenera sul nulla. Scrivo come se
fossi quasi completamente liberato dal mio corpo. Come se
levitasse. Il mio spirito è vuoto a causa di tanta felicità.
L’intima libertà che provo si può paragonare solo a una
cavalcata senza meta per i campi. Sono libero, senza meta.
Sarà forse il raggiungimento della libertà la mia meta? Non
c’è una ruga nel mio spirito che non si espanda in spume
leggere. Ho smesso di essere tormentato. Questa è la grazia.
Sto ascoltando della musica. Debussy usa la spuma del
mare che va a morire sulla sabbia, fluendo e rifluendo. Bach
è matematico. Mozart è il divino impersonale. Chopin
racconta la sua vita più intima. Schönberg, attraverso il suo
io, raggiunge l’io classico di tutti. Beethoven è l’emulsione
umana in tempesta che cerca il divino e lo raggiunge solo
nella morte. Quanto a me, che non chiedo musica, arrivo alle
soglie della parola nuova. Senza il coraggio di rivelarla. Il
mio vocabolario è triste e a volte wagneriano-polifonico
paranoico. Scrivo molto semplice e molto nudo. Per questo fa
male. Sono un paesaggio grigio e azzurro. Stagliato nella
fonte prosciugata e nella luce fredda.
Voglio scrivere in modo squallido e strutturale come il
risultato di squadre, compassi e angoli acuti di uno stretto
ed enigmatico triangolo.
«Scrivere» esiste di per sé? No. È soltanto il riflesso di
qualcosa che pone domande. Io lavoro con l’inatteso. Scrivo
come scrivo senza sapere come o perché – per fatalità di
voce. Il mio timbro sono io. Scrivere è un’investigazione. È
così:
Mi starò forse tradendo? Starò deviando il corso di un
fiume? Devo avere fiducia in questo fiume copioso. O starò
forse mettendo una barriera nel corso del fiume? Provo ad
aprire le chiuse, voglio vedere l’acqua scorrere con impeto.
Voglio che ogni frase di questo libro sia un climax.
Devo avere pazienza perché i frutti saranno sorprendenti.
Questo è un libro silenzioso. E parla, parla piano.
Questo è un libro fresco – appena venuto fuori dal nulla.
Eseguito al pianoforte delicatamente e con fermezza, e tutte
le note sono limpide e perfette, le une ben distinte dalle
altre. Questo libro è un piccione viaggiatore. Io scrivo per
nulla e per nessuno. Se qualcuno mi leggerà sarà di sua
iniziativa e a suo rischio. Io non faccio letteratura:
semplicemente vivo nel corso del tempo. Il risultato
inevitabile del fatto che vivo è l’atto di scrivere. Mi sono
perso di vista da così tanti anni che esito nel cercare di
trovarmi. Ho paura di iniziare. Esistere a volte mi dà la
tachicardia. Ho così tanta paura di essere io. Sono così
pericoloso. Mi hanno dato un nome e mi hanno alienato da
me stesso.
Sento che non sto ancora scrivendo. Intuisco e desidero
una lingua più fantasiosa, più precisa, con maggior
rapimento, in grado di creare spirali per aria.
Ogni nuovo libro è un viaggio. Solo che è un viaggio a
occhi bendati per mari mai scoperti prima d’ora – il bavaglio
sugli occhi, il terrore dell’oscurità è assoluto. Quando mi
coglie un’ispirazione, muoio di paura perché so che viaggerò
di nuovo e da solo in un mondo che mi respinge. Ma non ne
hanno colpa i miei personaggi e io li tratto meglio che posso.
Loro non provengono da nessun luogo. Sono l’ispirazione. E
ispirazione non è follia. È Dio. Il mio problema è la paura di
impazzire. Devo controllarmi. Esistono leggi che governano
la comunicazione. L’impersonalità è una condizione. La
separatezza e l’ignoranza sono la pecca in senso generale. E
la follia è la tentazione di essere totalmente il potere. Le mie
limitazioni sono la materia prima che va lavorata fino a
raggiungere l’obiettivo.
Io vivo senza pelle, ecco perché cerco di dare la pelle dura
ai miei personaggi. Solo che poi non resisto e li faccio
piangere per un nonnulla.
Radici semoventi che non sono piantate o la radice di un
dente? Perché anch’io sciolgo i miei ormeggi: uccido ciò che
mi turba, e il bene e il male mi turbano, e vado
definitivamente incontro a un mondo che è dentro di me, io
che scrivo per liberarmi dal peso difficile dell’essere sé
stessi.
In ogni parola batte un cuore. Scrivere è ricerca di intima
verità della vita. Vita che mi turba e mi fa tremare il cuore,
quando soffre per l’incommensurabile dolore che sembra
necessario alla mia maturazione – maturazione? Fino ad ora
ne sono vissuto senza!
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo