Un maledetto lieto fine – Bianca Marconero

SINTESI DEL LIBRO:
Il destino non è scritto, ci sono opzioni diverse dietro ogni porta.
Determiniamo il futuro scegliendo di aprirle o decidendo di non farlo.
E io stasera ho aperto una porta che doveva restare chiusa.
Un’ora fa, credevo di vivere un sogno. Mi sono presentata all’Oberon di
Caracalla, con un adorabile sangallo di Blumarine, un paio di favolose Jimmy
Choo e soprattutto con lui, Mattia Degli Innocenti, il grande amore della mia
vita.
Mi sentivo come la protagonista di una fiaba dal lieto fine assicurato.
Io, Agnese Altavilla, diciannove anni tra tre mesi, ce l’avevo fatta! Ero
riuscita ad avviare una frequentazione, platonica ma promettente, con Mattia,
l’unico ragazzo che mi fosse mai piaciuto.
Dopo tre settimane, le cose tra di noi si erano messe così bene che mi aveva
invitato al suo compleanno. E se inviti una ragazza al cospetto di tutti i tuoi
amici, nel tuo giorno speciale, stai mandando un segnale molto chiaro.
Speravo che, dopo il mio diploma, Mattia avesse finalmente smesso di
considerarmi una bambina e fosse pronto a darmi un ruolo diverso, al suo
fianco.
Non potevo prendere un abbaglio più grosso.
Come l’ho scoperto?
Aprendo la porta dei bagni.
Mattia era avvinghiato a Diletta, la sua ex fidanzata, e le teneva le mani sul
sedere durante una approfondita esplorazione laringo-esofagea. E sebbene lui
sia un brillante specializzando in medicina, dubito che stesse mettendo in
pratica un insegnamento della sua professione.
Come mai ho aperto la porta del bagno?
È stato Lucio Barberini, il best di Mattia, a dirmi di farlo, e questo prova che
è sempre il diavolo a tentarci. Lucio, per come la vedo io, è il diminutivo di
Lucifero. Laureando in legge, figlio maggiore di uno dei più importanti
avvocati romani, è il tipo di persona che ha sempre un piano, sempre un
secondo fine, e che si nutre delle disgrazie altrui. Da piccolo probabilmente
aspettava il tramonto sulla spiaggia per distruggere i castelli di sabbia degli
altri bambini. Come Mattia, anche lui è più grande di me, e come Mattia fa
parte del mio stesso ambiente. Ma a differenza di Mattia, sempre educato e
gentile, Lucio è un pericoloso manipolatore e ha il potere di portare le
persone a fare quello che decide. Purtroppo stasera il suo obiettivo ero io.
Non so perché abbia voluto farmi del male, non capisco perché sbattermi in
faccia quanto poco conto per Mattia.
Ha trasformato la mia fiaba in un incubo.
Sto lottando per non piangere, mentre nella baraonda del privè, tra gente
mezza ubriaca che si impegna per esserlo del tutto, io cerco la borsetta, persa
tra i cuscini damascati di un gigantesco divano. Due ragazze che conosco
solo di nome, ma che fanno parte del giro di Diletta, mi si avvicinano e mi
chiedono se va tutto bene. Lo fanno con la condiscendenza riservata ai
bambini. Probabilmente tutti sapevano che tra Mattia e Diletta non era
davvero finita. Penso a come devo risultare patetica agli occhi di tutti. Sono
la ragazzina scema che si è illusa di piacere a un ragazzo grande.
«Mi dispiace».
Sono di spalle, c’è una confusione pazzesca, ma riconosco la voce. È Lucio
Barberini. Mi alzo cercando una postura dignitosa. E non indietreggio di un
passo quando me lo trovo davanti. Alto, slanciato, con un viso scavato e due
occhi glaciali capaci di una fissità inquietante, mi scruta come se la mia
sconfitta coincidesse con la sua vittoria. C’è qualcosa di spigoloso nel suo
viso, negli zigomi e nel naso. Sembra consumato da un fuoco, sempre alle
prese con un pensiero che in qualche modo lo brucia.
«Non ci crede nessuno che ti dispiace», dico senza distogliere gli occhi.
Voglio che sappia che non ho paura di lui. «Lo hai fatto apposta, Lucio,
sapevi che Mattia era lì con Diletta, e hai voluto che io vedessi».
Ha il buon gusto di annuire. Le luci rosse gli lampeggiano addosso ed
evidenziano il fisico magro. In questo momento sembra che sia stato sputato
fuori dall’inferno. Non mi stupirei se non lo volessero neppure lì.
«Vieni, ti do uno strappo a casa», si offre.
Se non fossi sull’orlo delle lacrime, mi farei una risata.
«Non ce n’è bisogno. Chiamo un taxi», estraggo il cellulare dalla borsetta.
«Agnese, non essere infantile».
«E tu non trattarmi come se fossi una ragazzina».
Allarga le braccia. «Non vuoi parlarne? Davvero non vuoi che ti spieghi?».
Neppure gli rispondo. Faccio partire la chiamata al taxi, e cerco di
guadagnare l’uscita. La mia speranza di averlo seminato si infrange al
guardaroba del locale.
Lo vedo arrivare e per quanto gli dia le spalle lui non si scoraggia. «Mi
correggo, Agnese. Sei molto infantile».
Mi giro, lo affronto di nuovo. «Lucio, è stata una serata impegnativa, e non
ho voglia di parlare con te».
«Dovresti», lo dice con una traccia di sorriso. «Tu hai un problema…».
«Io cosa…?»
«Hai un problema. Ammetterlo è il primo passo».
«Non so di cosa parli». Mi infilo in fretta il giacchino di cotone. «Io non ho
nessun problema», dichiaro a testa alta e provo a seminarlo.
Ho giusto il tempo di varcare la soglia, poi Lucio mi sbarra il passo.
«Il mio amico ce l’ha messa tutta, ma tu l’hai mandato in bianco. Per tre
settimane».
«Tu cosa ne sai? Io…».
«Alla quarta settimana lo avrebbero fatto santo. Non puoi fargliene una
colpa se si è chiuso in bagno con Diletta. Tu sei talmente vergine che Mattia
non sapeva neppure da dove cominciare».
Me lo ha detto come se mi stesse diagnosticando una malattia rara.
Questa cosa mi ha distrutto.
Mi ha distrutto perché è vera!
Sono al limite, annichilita, ma non mi metterò a piangere davanti a
Barberini. Quindi mi allontano sul marciapiede, e per fortuna stavolta non mi
segue.
Rientro in taxi, la corsa verso casa mi servirà per darmi una calmata. Non
posso rischiare che qualcuno mi veda in questo stato. Mentre la città scappa
via, oltre i finestrini, cerco di mettermi a fuoco. E più o meno al Lungotevere
dei Pierleoni, in vista dell’Isola Tiberina, afferro un pensiero confortante. Il
rischio di imbattermi in familiari e servitù sarà molto basso. Papà e sua
moglie Isabella sono andati alla festa di anniversario dell’avvocato Anceschi.
Ed è improbabile che Maria, Clara o qualcuno del personale di servizio si
aggiri per i corridoi.
Resta giusto il rischio di incontrare lui, il debosciato.
Sto parlando di Brando Serristori, il figlio della moglie di mio padre. Da due
anni lui vive nella mia casa ed è come la combinazione simultanea di una
spina nel piede e di un calcio in bocca. Una specie di Kurt Cobain che si
atteggia a ribelle e passa metà della sua vita a litigare con mio padre e l’altra
metà a suonare con la sua band, in locali malfamati.
Ma è mezzanotte appena. Ovunque sia ad ammazzarsi di birra e musica
orrenda, probabilmente la sua serata non è neppure iniziata.
Il fiume mi fa ancora compagnia sul Lungotevere Marzio. La sua superficie
replica le luci in un modo che affascina e allo stesso tempo inquieta. Se non
sapessi nulla della consistenza dell’acqua, penserei che è affidabile. Proverei
a calpestarla e finirei per sprofondare. Su viale Washington mi assale la
consueta sensazione di varcare la soglia di un mondo solo mio. Il parco è così
presente che mi sembra di avercelo dentro. Il taxi si ferma davanti alla
cancellata di palazzo Altavilla, pago la corsa e, varcate le ante di ferro
battuto, mi incammino sul sentiero di ghiaia. Un fiume bianco che trafigge il
giardino.
Giro intorno alla fontana di Apollo e Dafne e compare la villa.
Palazzo Altavilla è una dimora obiettivamente splendida. Il nucleo originale
risale al Cinquecento, ma l’edificio non ha conosciuto un solo anno di
abbandono. Si trova qui, nel cuore del cuore di Roma, in un lotto di parco a
Villa Borghese.
La mamma ne era orgogliosissima. Il pensiero di mia madre è una fitta. È
morta dieci anni fa, ma in serate come questa capisco cosa significhi davvero
essere rimasta sola. Mio padre è un uomo politico, una persona severa e
dotata di senso pratico, non è il tipo a cui fare confidenze. La mia matrigna è
una donna bellissima ma senza cervello, che tollero per quieto vivere. Suo
figlio, un debosciato che mi limito a ignorare.
Quindi ho dei familiari, ma non una famiglia che mi possa aiutare.
Risalgo le scale di granito ed entro a palazzo.
L’atrio, ora in penombra, è a pianta rotonda e sormontato da un soffitto a
cupola dove è raffigurato ancora Apollo, stavolta con le Muse. Questo
affresco mi ha sempre fatto pensare a Mattia. A essere sinceri, tutto mi fa
pensare a Mattia.
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