Trauma – Camilla Grebe & Åsa Träff

SINTESI DEL LIBRO:
Tutto appare diverso dal basso.
Le gambe massicce del grande tavolo, il ripiano di quercia con il
disegno che Tilde ha fatto con il gessetto, e che la mamma non ha
ancora scoperto. La tovaglia che la circonda con le pesanti pieghe
color crema.
Anche la mamma appare diversa dal basso.
Con prudenza, Tilde fa capolino dalla sua capanna e la guarda,
mentre con una mano fuma e con l’altra lascia cadere nel pentolone
grigio gli spaghetti, simili ai bastoncini dello shanghai, che si
spezzano sotto la pressione della forchetta.
Dai jeans della mamma spuntano il tatuaggio che ha in fondo alla
schiena e le mutandine rosa. Dal basso, il suo sedere sembra
enorme, e Tilde medita se dirglielo. Mamma se lo chiede sempre se
è troppo grosso e spesso costringe Henrik a rispondere, anche se lui
non vuole. Lui preferisce guardare i cavalli che corrono in tv
bevendosi una birra. Si chiama hobby.
La mamma spegne la sigaretta nella tazza del caffè, raccoglie con
le unghie lunghe alcuni spaghetti caduti vicino alla pentola e li mette
in bocca, come se fossero caramelle. Si sente uno scricchiolio
quando mastica.
Tilde prende un gessetto blu e comincia a colorare quello che
sarà il cielo. Ha già disegnato una casa – la loro casa – e una
macchina rossa, quella che compreranno appena la mamma troverà
un lavoro. Dalla finestra della cucina entra la luce fioca del
pomeriggio autunnale, tingendo la stanza di un grigio deprimente.
Dentro la sua capanna, invece, c’è un buio gradevole. Filtra solo un
debole bagliore, sufficiente a illuminare il foglio posato sul pavimento
e i colori dei gessetti.
Dalla radio arriva un flusso di musica continuo, interrotto solo
dalla pubblicità. A quanto ha capito lei, la pubblicità è quando
mamma e Henrik parlano. O quando lui piscia tutta la birra che ha
bevuto. O quando mamma esce a fumare sul balcone, anche se, le
volte in cui Henrik non è in casa, poi fuma dappertutto. Persino se
non c’è la pubblicità.
All’inizio i colpi alla porta sono leggeri e prudenti.Non sembra che
abbiano bussato, ma piuttosto che qualcuno abbia tamburellato sul
legno passando davanti all’appartamento.
La mamma accende un’altra sigaretta, china sul lavello. Aspetta.
Ora i colpi diventano più forti. Bum, bum, bum.
Non ci sono dubbi: c’è qualcuno fuori, qualcuno che vuole entrare.
E in fretta, anche.
«Arrivo!» grida la mamma, e si avvia alla porta con la sigaretta in
mano. Lentamente, come se avesse tutto il tempo del mondo. Tilde
sa che va bene così: Henrik deve imparare ad aspettare. Non può
succedere tutto troppo in fretta, alle sue condizioni. Così gli ha detto
la mamma.
Tilde cerca un gessetto giallo chiaro: andrà benissimo per il sole.
Inizia a tracciare un tondo e lo riempie con movimenti circolari e
avvolgenti. Il foglio si piega un po’ e, quando lo blocca con l’altra
mano, si strappa nell’angolo destro. Una crepa nel mondo perfetto
che sta creando con tanta cura.
Esita: deve ricominciare da capo o andare avanti?
Bum, bum, bum.
Henrik sembra più arrabbiato del solito. Si sente il tintinnio della
catena di sicurezza, poi mamma apre la porta.
Tilde cerca tra i gessetti. Sotto il tavolo assomigliano a tanti
bastoncini scuri. Come se fosse seduta sotto un abete nel bosco e
giocasse con dei legnetti veri. Chissà come sarebbe: non è mai stata
in un bosco. Solo nel parco giochi sotto casa, e lì non ci sono abeti,
soltanto cespugli pieni di spine e di piccole bacche arancioni che
secondo gli altri bambini sono velenose.
Trova il gessetto grigio. Deve fare una grossa nuvola scura, una
di quelle gonfie di acqua e grandine, di quelle che spaventano i
grandi.
Dall’ingresso arrivano voci irritate e altri colpi. Rumori sordi sul
pavimento, come di qualcosa che cade e rimbalza. Tilde vorrebbe
che smettessero di litigare. O che la mamma buttasse via quelle
lattine di birra: è per colpa loro che Henrik è sempre di cattivo
umore, arrabbiato e stanco.
Tilde si stende per terra per poter spiare da sotto la tovaglia.
Urlano. C’è qualcosa che non va. Non riconosce quella voce. Henrik
non parla come al solito.
L’ingresso è buio.
Riesce a intravedere dei corpi che si muovono, ma non a vedere
cosa sta succedendo.
Un grido.
Qualcuno – è la mamma, adesso può vederla – cade a pancia in
giù sul linoleum della cucina. Atterra sulla faccia. Tilde riesce a
scorgere una pozza rossa che si allarga vicino alla testa. La mamma
si aggrappa al tappeto. Tenta di trascinarsi mentre qualcosa di
piccolo, luccicante e dorato rotola in cucina dall’ingresso.
L’uomo impreca. Ha la voce scura e roca. Poi dei passi. Una
figura si china, raccoglie il piccolo oggetto.
Tilde non osa sporgersi per vedere chi sia, ma scorge degli stivali
neri e dei pantaloni scuri che si fermano vicino alla testa della
mamma, esitano un secondo e poi la colpiscono ripetutamente in
faccia, finché tutto il viso non sembra staccarsi come la maschera di
una bambola. Una poltiglia rossa e rosa sgorga formando una pozza
sul tappeto davanti a lei. Anche gli stivali neri sono coperti di poltiglia
che gocciola lentamente sul pavimento, come gelato sciolto.
Ora si sente soltanto la musica che viene dalla radio, come se
nulla fosse successo, malgrado la mamma sia lì distesa sul
pavimento della cucina come un mucchio di vestiti sporchi in un lago
di sangue che si allarga ogni secondo che passa. I respiri della
mamma sono profondi e rantolanti. Come se avesse appena bevuto
tanta acqua fredda. Poi Tilde vede che viene trascinata verso
l’ingresso, centimetro dopo centimetro. Sta ancora stringendo forte il
tappeto della cucina, che la segue nell’ingresso buio. Sul linoleum
color crema rimangono solo il sangue e la poltiglia rosa.
Tilde esita un istante, poi riprende a colorare il nuvolone grigio.
Stoccolma, due mesi prima
L’ufficio di Vijay: una scrivania gigantesca, dove ogni centimetro di
superficie è coperto di carta. Mi chiedo come faccia a trovare quello
che gli serve tra tutti quei fogli, cartelline e riviste.
In cima a una pila di tesine troneggia il suo portatile, un Mac
ultrapiatto. Vijay è sempre stato un tipo da Mac. Accanto, una tazza
di caffè e una buccia di banana. Una scatola di tabacco è
seminascosta da una circolare del preside di facoltà.
«Hai cominciato a usare il tabacco?»
Aina guarda Vijay con aria scettica e fa una smorfia di disgusto.
«Mmm... sono stato costretto. Olle è contrario alle sigarette, ma
tollera il tabacco.»
Sorride e Aina scuote la testa, comprensiva.
«Che peccato. E io che pensavo potessimo prenderci un caffè e
dividere una sigaretta fuori, nel vento pungente. Rievocare i vecchi
tempi.»
Ridiamo tutti e tre e ricordiamo per un attimo tutte le volte in cui
siamo stati insieme sotto la pioggia battente, la neve e il sole,
d’inverno e d’estate. Abbiamo diviso sigarette e caffè. Forse allora la
vita era meno complicata. Oppure ci sembra così ora, perché è
passato del tempo. Quello che una volta era il presente è molto
lontano, adesso.
Io, Aina e Vijay studiavamo insieme psicologia qui all’università di
Stoccolma. Dopo la laurea, io e Aina abbiamo scelto la psicologia
clinica, mentre Vijay la carriera accademica e ha conseguito il
dottorato. Ora, dieci anni dopo, è professore di psicologia forense.
Lo osservo. I capelli, un tempo neri, ora hanno qualche sbuffo
grigio sulle tempie. Baffi folti, una camicia stropicciata azzurra di
cotone a righe bianche. Non sembra un professore, ma forse è così
che sono tutti gli accademici. Non si assomigliano tra loro. Per quel
poco che ne so, visto che di professori non ne conosco molti. Di
certo, comunque, non posso negare che Vijay sia invecchiato,
proprio come me e Aina. Siamo tutti più vecchi, forse più saggi o
forse solo più stanchi e un po’ sorpresi che la vita non si sia rivelata
come pensavamo allora.
«Non è difficile convincermi. Magari dopo dividiamo una sigaretta.
Olle è a Reykjavík per un congresso: non se ne accorgerà.» Vijay
prende la scatola di tabacco e comincia a giocherellare
distrattamente con l’etichetta. «Ma non è per parlare delle mie
abitudini con la nicotina che vi ho chiesto di venire qui.»
Aina e io annuiamo. Sappiamo che Vijay ci ha invitate per
discutere di un incarico, e noi gliene siamo grate. Anche le
psicoterapeute risentono della crisi e incarichi lunghi da parte di un
ente pubblico sono ben accetti.
«Si tratta di un progetto di ricerca nel quale studieremo l’effetto
dei gruppi di auto mutuo aiuto sulle donne che hanno subito
violenza. Nel nostro target rientrano donne che rischiano di
sviluppare disturbi da stress post-traumatico, ma che per varie
ragioni non vogliono sottoporsi a un trattamento tradizionale. Il
progetto è una collaborazione tra il comune di Värmdö e l’università
di Stoccolma.»
Vijay è entrato nella parte. Gli occhi brillano e le guance si tingono
leggermente di rosso. Ha una vera passione per la sua professione.
Non è solo un lavoro per lui, una forma di sostentamento, ma un
modo di vivere e, forse, anche qualcosa che dà un senso alla vita. E
poi non c’è dubbio che alimenti la sua vanità: ama l’autorità che
l’essere professore gli conferisce. Gli piace essere l’esperto, quello
che ne sa più degli altri.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo