Tempo di imparare – Valeria Parrella

SINTESI DEL LIBRO:
Ci ho messo tempo a capire e ce ne vorrà per sempre. Capire tu
dove fossi, dietro quale lettera della parola disabilità ti stessi
nascondendo, con quale ti fossi armato per portare avanti la tua vita,
in un mondo che non ha proprio la forma della promessa.
La prima volta che ti ho percepito davvero mio fu dopo qualche
mese che eri nato, su una spiaggia di Atrani. Era un agosto cupo e
uggioso, e in lontananza si vedeva la piana di Battipaglia che faceva
pensare piú a una guerra antica che alla pigrizia dei bagnanti.
Andavamo sulla spiaggia, allora, io e Ariel per mano e io con te nel
marsupio. E insieme, noi tre, non so a quanti chili potessimo
arrivare. Ero dimagrita molto dalla tua nascita contorta e strana, che
lasciava aperta la tua vita al dubbio come una bocca spalancata
nella meraviglia. I medici che ti avevano accolto e poi lasciato
andare via, tra le mie braccia, avevano solo punti interrogativi
dappertutto: che la tua vita sarebbe potuta essere definita in un
quadro di disabilità era una delle variabili.
Ma a me i quadri sono sempre piaciuti, e anche tu hai sempre
avuto una certa pazienza, ad accompagnarmi alle mostre. Abbiamo
inventato un’occasione per ogni visita difficile che dovevamo fare.
Magritte al Palazzo Reale di Milano se si andava al Niguarda a
controllare gli occhi, cosí da capire come è fatto il cielo che la città
non voleva ammettere. Caravaggio alle Scuderie del Quirinale
perché Roma non fosse solo il Bambin Gesú. Per ogni viaggio in
metro alla zona ospedaliera una tappa alla quadreria di
Capodimonte, e tentare di spiegarti Ribera senza che tutto quel buio
facesse paura: i santi come piccoli oggetti per la tua enciclopedia di
bambino con disturbi dello sviluppo: Pietro porta le chiavi, Paolo
porta la colonna, Lucia porta gli occhi. E poi forse noi due, dentro
uno specchio con la cornice d’oro, riflessi nei secoli, mutato il
marsupio, in una donna con bambino, anche se io ero stanca e non
mi sfolgoravano i capelli, e tu già dormivi. Beato.
Un giorno precipitò su di noi il Cenacolo, dall’alto, e poco
importava se qualche chilometro a est esisteva il padiglione Rossini
con i suoi lugubri annunci di ambulanza.
Ma il piú grande contraltare di bellezza al gravare della disabilità,
sei stato e sei tu stesso.
Quale canone dovettero inventarsi gli antichi, che stesse lí a
fondare il normale, se poi tutto ciò che ha saputo rivelare la
normalità è stata la sua assenza? Una Nike senza testa ma con le
ali, una Venere senza le braccia, un Mosè sfregiato. E il corpo di
Frida Kahlo trapunto di ferro come fanno le stelle con il cielo.
In questo stesso esatto senso io dico che tu con il tuo passo
incerto, con il tuo occhio sghembo, la parola tua attorcigliata, sei
l’essenza del quadro.
Riserve
Da ragazza, quando pensavo che tutto il nostro impegno sarebbe
dovuto essere di modellare la vita sulla misura conosciuta, percepivo
già, come un rumore sordo, remoto ma costante, che i meccanismi
del mondo non giravano per tutti ben oleati. Per un bambino che
veniva chiuso in una stanza, di cui sentivo urla disarticolate, una
vicina di casa mi disse: «Non giudicate, non sapete che problemi ha
quella madre». E io confondevo, noi studentesse sulla trigonometria
sbagliavamo tutti i conti e pensavamo che la madre fosse il
problema del figlio. Un’amica di famiglia che venne a piangere, dopo
una feroce diagnosi, sul divano del nostro soggiorno, pareva come
una figura sfortunata che dopo un poco sarebbe andata via, a
portare la sua disgrazia lontano da noi. Una bambina in libreria che
tentava di leggere scritte grandi, avvicinando gli occhi e il naso a un
librone: «Mamma, fammi provare, forse riesco». E la madre: «No,
non ce la fai», poi dignitosa, altera, diceva ai commessi che
avrebbero dovuto mettere un catalogo di audiolibri. Un uomo di
quarant’anni che girava intorno al tavolo di un’estate della mia
adolescenza, per rubarci le fette di pane dai piattini, curvo sotto un
glicine basso, in punta dei piedi, divenuto per noi cosí naturale nella
vacanza che preso in conversazione un commensale esclamò: «E
ho capito, mica sono ritardato…» Dunque la sorella dell’uomo curvo
lo guardò e parlò a tutti: «Sapessi quante diagnosi ci vogliono per
stabilirlo».
Mi tornano ora, tutte queste avvisaglie alla mente.
L’ultima mentre ero incinta: un amico al quale incauta dissi: «Se
tuo figlio ha tutta questa vitalità in un letto, immagina se
camminasse». E lui rispose sorridendo e serio, da un’altra parte del
pianeta: «Non ci penso mai».
Eccomi, sono da questa parte del pianeta anche io, e saltando di
qua ho compreso cosa voleva dire, cosa quel non pensare mai a suo
figlio altrimenti da quello che era: in un letto e basta.
È tempo di mettere le scarpe e tentare di far da soli con i lacci,
riporre il piatto nel lavandino senza che nessuno dica di farlo, lavare
bene anche i denti di dietro, quelli che non si vedono, e imparare il
corsivo con tutte le zampette. Era l’handicap quel rumore di fondo:
, una maiuscola corsiva che mai alcuno ha saputo fare bene.
Io non avrei commesso errori macroscopici, non sono stata una
da matita blu, non avrei trattato una diagnosi medica come un
insulto. Però la mia correttezza si muoveva dentro una riserva
mentale, che è quella che a me non sarebbe, ragionevolmente,
accaduto mai. È una cosa che non si pensa neppure, si applica in
automatico: il canone, la misura.
Ma con questa misura i cartelli vengono affissi troppo in alto per
vederli da una sedia a rotelle. Essere dentro le cose è un luogo:
avvicinarsi a esse, tentare la solidarietà senza conoscerle davvero è
una misura che mai si colma; un secchio che non raggiunge l’orlo
anche desiderandolo. Allora bisogna sbrecciare il secchio, bucarlo e
renderlo colino, pestare i piedi al fondo per far schizzare fuori
l’acqua.
La riserva mentale è un luogo chiuso, e noi vogliamo vivere liberi.
Rivelazione
Dopo le dimissioni dall’ospedale sapevo due cose: che uno dei
tuoi occhi, a guardarlo grande, con i macchinari giusti, appariva
come un lenzuolo stracciato al vento. E che forse, tu crescendo, si
sarebbero manifestati dei problemi, ma quali, nessuno sapeva dire.
Poi tu ti alzasti e iniziasti a camminare, a dire la parola che tutti
aspettano al cuore, e l’occhio pareva orientarti alquanto nello spazio.
A cadenze regolari ti portavo dai medici, salivamo e saliamo scale di
ospedale. Gli scalini degli ospedali si moltiplicano ai passi, sono
scale mobili prese al contrario: le persone sempre ferme nello stesso
punto, solo fatica assai. Si intrecciano tra di loro anche a molte città
di distanza: convergono tutte sugli stessi ballatoi, hanno madri
aggrappate alle stesse ringhiere con figli a cui sorridono. Qualunque
bambino con qualunque motivo di dolore sa la differenza tra la casa
e l’ospedale, come la scogliera sa la risacca lenta estiva e l’onda alta
dell’inverno. E ciascuna madre sa che il figlio sa, eppure nasconde,
in qualunque grado. C’è chi nasconde e basta, chi spiega tutto nel
dettaglio cosí che il gioco si consumi dietro il sorriso. Chi dice mezze
cose mezze vere.
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