Sud – Mario Fortunato

SINTESI DEL LIBRO:
Il Notaio era figlio unico. Forse per questo motivo mise al mondo
una dozzina di eredi: quando aveva appena diciotto anni cominciò
con Dinda, una cameriera, proseguì con la prima e poi con la
seconda moglie ma non è chiaro con chi concluse perché di tanto in
tanto, e in luoghi disparati, si contavano altri discendenti. Tutte e tre
le donne scomparvero molto prima di lui, così come parecchi dei
suoi figli che una volta, in uno dei frequenti accessi di collera, egli
stesso definì “la conseguenza accidentale di una scopata”. Del resto,
morì centenario nel 1977 e si può immaginare che, con un secolo
sulle spalle, il cinismo diventi una facile tentazione.
Il Notaio era un uomo alto, asciutto e severo. La sua severità era
rivolta soprattutto agli altri; verso se stesso tendeva a una certa
indulgenza. Anche se colto, brillante e corretto fino all’ossessione,
non doveva essere un uomo piacevole, se non altro perché era
convinto di essere una delle poche persone intelligenti in
circolazione – segno che non lo era, o non lo era abbastanza da
nutrire qualche dubbio in proposito. A ogni modo, era di sicuro una
persona fuori del comune.
Quando in casa dei genitori si comprese che era stato lui a
mettere incinta Dinda, la cameriera, fu immediatamente spedito a
Napoli, dove si iscrisse all’università. Giurisprudenza, come il padre.
Allievo del filosofo del Diritto Giovanni Bovio, del quale condivideva
gli ideali repubblicani, era ancora studente quando fu invitato a
frequentare prima da praticante e poi da associato un famoso studio
legale partenopeo. E poiché a quei tempi per raggiungere il paese in
cui era nato bisognava imbarcarsi per Pizzo Calabro e da lì
proseguire su strade impervie, infestate dai briganti, prima di
giungere a destinazione, egli sparì dalla casa paterna per un numero
considerevole di anni.
A Napoli il giovane Notaio che ancora non era notaio si dedicò
alla cura di sé con la stessa voluttà con cui altri si dedicano alle
droghe, cioè alla propria dissoluzione. Leggeva moltissimo
(abitudine che non avrebbe mai abbandonato), appassionandosi alle
teorie positiviste e lombrosiane del tempo; si abbigliava con cura
maniacale, investendo in abiti costosi, confezionati dalle migliori
sartorie partenopee, il generoso assegno mensile che gli passava il
padre; saltava da un appuntamento mondano all’altro, come da un
letto all’altro, senza distinzioni sottili tra fanciulle di buona famiglia,
popolane, signore già maritate e prostitute. I caffè cittadini
pullulavano di giovanotti che, simili a lui, coltivavano insieme i piaceri
della carne e gli ideali socialisti. Si fumava, si discuteva, si copulava– in quest’ordine di interesse. Alcuni assumevano anche cospicue
quantità di alcolici, lui no, era quasi astemio.
Dopo la laurea cominciò a lavorare nel famoso studio legale di cui
sopra. Le sue frequentazioni si divisero equamente tra le aule di
giustizia e i salotti che più di un secolo dopo sarebbero stati definiti
radical chic. Per circa un anno si accompagnò a una contessa
polacca, Magda, che aveva abbandonato marito e figli a Cracovia
per dedicarsi alla causa del socialismo e dell’indipendenza del suo
Paese dalla Russia: la donna viveva in un vasto ma gelido
appartamento sul Vomero, vendendo un po’ alla volta l’enorme
quantità
di
gioielli
portati
con
sé
dalla
patria.
Fu
in
quell’appartamento pieno di spifferi e di spie che il giovane Notaio
non ancora notaio andò ad abitare, poche settimane dopo avere
conosciuto la matura ancorché seducente e combattiva contessa.
Siamo ai primi del Novecento e le spie che frequentavano la casa
di Magda rispondevano alle due categorie classiche del settore:
quella politico-ideologica, tipica nell’Europa del secolo scorso, e
quella squisitamente mercenaria, diffusa in tutte le epoche e
latitudini. Alla prima erano iscritti quegli individui che, fingendo
amicizia con la nobildonna, notoriamente dalla parte dei socialisti
filo-bolscevichi del suo Paese, passavano informazioni su di lei e i
suoi contatti italiani alla fazione nemica, capeggiata da Józef
Piłsudski, futuro capo di stato polacco; alla seconda categoria,
invece, appartenevano i conterranei del giovane Notaio che, con la
scusa di portargli lettere, pacchi e notizie provenienti dai genitori, in
realtà tenevano d’occhio la sua vita privata e, dietro lauto compenso,
riferivano a chi di dovere. Inutile aggiungere che i mercenari furono
in questo caso (ma probabilmente è una regola generale) di gran
lunga più efficienti e incisivi dei colleghi motivati da ragioni politico
ideologiche. Ne è prova il fatto che Magda continuò per anni le sue
attività cospirative a Napoli (rientrerà nella Polonia liberata del
secondo dopoguerra per fuggire quasi subito, decrepita e senza un
soldo, a Parigi), mentre il giovane Notaio fu costretto assai presto a
lasciare la città.
Quando seppe della scandalosa relazione con la nobildonna
polacca, fedifraga e attempata (trentasei anni contro i venticinque di
lui), il padre del giovane Notaio scrisse un’accorata lettera al figlio in
cui lo supplicava di tornare subito a casa: la moglie era gravemente
malata e sul letto di morte invocava di vedere l’unico rampollo
un’ultima volta, dopo la lunga, lunghissima assenza. Aggredito dal
senso di colpa – sentimento che in seguito avrebbe cancellato dal
proprio vocabolario interiore – il giovane Notaio si affrettò a partire
da Napoli, convinto di assentarsi un paio di mesi al massimo. Invece
a lungo non vi mise più piede – unico vero rimpianto di una vita
altrimenti immune dai rimorsi – e addirittura avrebbe rivisto Magda
solo nel 1948, quando entrambi, ormai azzerata la differenza d’età,
erano vecchi.
La madre del Notaio non sarebbe morta all’arrivo del figlio e
neppure nelle settimane successive. Soffriva davvero di una brutta
ulcera gastrica, ma la situazione si aggravò portandola alla tomba tre
anni e mezzo dopo. Nel frattempo il Notaio si rassegnò in maniera
sorprendentemente rapida a rimanere in paese, assecondando così
la volontà paterna, e in capo a una manciata di settimane prese
moglie. Sparita dalla circolazione Dinda, la cameriera che gli aveva
già dato un figlio, incontrò di nuovo (ma non per caso – le rispettive
famiglie avevano progettato la circostanza) una ragazza frequentata
in passato: una ragazza minuta, dall’aria infantile, segreta. Il suo
nome era Vita, difficilmente apriva bocca e diede al Notaio, uno dopo
l’altro, sette figli maschi, l’ultimo dei quali morì ancora piccolissimo.
Lo avrebbero chiamato Michele, ma non ce ne fu il tempo. A
quindici giorni dalla nascita, Vita uscì di casa per partecipare al
funerale di un vicino. Era metà gennaio e tirava un vento dispotico di
tramontana. La donna rientrò infreddolita e con i sintomi
dell’influenza. Quella notte la febbre salì. Era broncopolmonite – una
malattia che al tempo (siamo nel 1924) mieteva vittime in
abbondanza. Vita non fece eccezione. Subito dopo se ne andò
anche il bambino che avrebbe dovuto chiamarsi Michele.
Ancora quarantenne, il Notaio si ritrovò vedovo e con sei figli
giovanissimi a cui badare. Il primo aveva quindici anni e si chiamava
come il nonno, Giuseppe; il secondo di anni ne aveva appena
compiuti dodici, e un giorno tutti, anche la moglie Tamara, lo
avrebbero chiamato l’Avvocato; seguivano Vincenzo, Ernesto e
Arnaldo, di dieci, sette e tre anni; il più piccolo ne aveva appena due
e portava il nome di un prozio illustre, ma scomparve pure lui in
fretta, appresso alla madre, e nessuno ricordò di averlo mai
chiamato Giustino.
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