Signora Ava – Francesco Jovine

SINTESI DEL LIBRO:
Don Matteo Tridone si schermiva dal sole per guardare la siepe
che aveva di fronte. Con gli orecchi tesi seguiva il vario cinguettare
dei passeri tra i rami dei fichi e i rovi della fratta. Quelli caduti nella
rete avevano uno scoppio improvviso di note rabbiose, poi un pigolio
lungo e dolente. Gli altri, volando sulle piante, affondavano il becco
nelle ferite dei fichi che pendevano flaccidi dai rami con la lagrima
mielata nella punta; poi, sazi, accorrevano al richiamo della siepe.
Don Matteo era seduto su una panca all'ombra di un olmo carico
di bacche e di foglie. Davanti aveva una breve porca di terra
disseminata di piante gialle di pomodori che avevano ancora alcuni
frutti troppo maturi alla base e verdi alle punte. Ai lati, rosai spogli e
cespi di gerani disseccati. Tutta la vegetazione moriva nel sole
pallido di fine ottobre e nel silenzio della campagna umida. C'erano
state la settimana avanti grandi piogge dapprima calde e irruenti
dominate dallo scirocco che veniva dalla piana di Puglia, poi lente ed
uguali con fresco sentore d'inverno.
Don Matteo di tanto in tanto dava un'occhiata distratta al
breviario che aveva aperto sul ginocchio destro. Un Oremus rosso
colpito da un raggio rifulgeva con una consistenza metallica, le altre
parole erano annegate nell'ombra.
Il prete era senza sottana: in panciotto, brache e collare. I calzoni
gli arrivavano poco piú giú del ginocchio ed erano pieni di toppe
multicolori, le calze di grossa lana nerastra si perdevano nelle
scarpe a fibbia troppo grandi per i suoi piedi: le scarpe
s'ingegnavano a rendere torpida l'apparenza delle sue gambe
magre; il panciotto aperto e la camicia troppo larga, davano al suo
busto una goffaggine che s'indovinava falsa. Dritto in piedi il suo
corpo aveva un'asciuttezza dura e giovanile; il ventre piatto, il fianco
snello, e una rapidità un po' scattante e sbilenca per un ritegno
innaturale dei movimenti dovuto all'abitudine della compostezza
sacerdotale.
All'improvviso si alzò, guardò al di là della siepe, poi raccolse un
sasso e lo lanciò senza violenza tra le spine:– O là, Pietro, vieni fuori: tanto t'ho visto.
S'intese un fruscio dietro i rovi poi il cigolio leggero di un cancello
a destra e Pietro comparve.
Don Matteo disse:– Quanti ne hai presi?– Neanche uno!– Bravo stupido, sei stato un quarto d'ora a frugare tra le spine e
non ne hai acchiappato neanche uno.
Allora Pietro gli mostrò una mano ferita dalla quale gocciava un
po' di sangue.
Don Matteo disse:– Fa' vedere –. Gliela guardò e poi rise rumorosamente. – Non
sembra, – aggiunse, – ma ci vuole abilità anche per queste cose.– Ci vuole, – disse il giovane, e tacque. Di tanto in tanto si
guardava la mano e sorrideva vagamente. Poi tornò serio e
annunziò:– Domani vado a Petrella.– Arriva domani?– Domani; devo partire due ore prima dell'alba. Per questo sono
tornato presto. Faccio riposare Cardillo. Cardillo è vecchio e Don
Carlo è grasso come un cappone.
Don Matteo rise e Pietro si mostrava contento di vederlo allegro.
Ma quando vide che il prete tirava fuori uno scartafaccio dalla tasca,
ebbe un'espressione di puerile paura e disse:– Ora me ne vado.– Eh, te ne vai: invece aspetti e ripeti, – ordinò Don Matteo con
energia. – Siediti, – e gli fece posto sulla pietra.
Il giovane esitò ancora un momento e poi timidamente:– Domani, quando torno; sarà meglio domani.– Siedi, – ripeté il prete con voce perentoria. I pomelli gli si erano
arrossati e la stizza gli vagava ancora incerta negli occhi.
Il giovane ubbidí. Don Matteo incominciò:– Eravamo arrivati qui: Introibo.
Pietro aggrottò le ciglia e ripeté barbugliando alcune parole del
servizio della messa che il prete tentava d'insegnargli.– Lo sai peggio di ieri, sei un asino, non riuscirai mai.
Il prete con una violenza improvvisa, fulminea gli appioppò un
manrovescio: Pietro ebbe come un ruggito breve e balzò in piedi;
protese le mani ad artiglio contro Don Matteo che, ora, già lo fissava
con occhi mansueti e pentiti. Pietro si calmò, ma gli volse le spalle e
si allontanò verso destra; raggiunta la siepe, rimosse un fascio di
spine che chiudeva un guado e passò.
Don Matteo rimase perplesso qualche minuto a guardarsi la
lunga mano dura e ossuta; poi, si disse: «Vergine Santa, come mi
tenta il diavolo». S'alzò e fece qualche passo nervosamente tra i viali
dell'orto.
Il
sole era nel mezzo del cielo; s'udí un tremulo squillo di
campanelle e poi il rombo lungo e profondo della campana
maggiore. Il prete si segnò con un gesto largo e distratto poi si chinò
a sinistra, raccolse un rozzo sacco di canapa e s'avviò verso la siepe
per prendere gli uccelli. Li afferrava con gesti esperti e rapidi
evitando sapientemente le spine, e l'introduceva nel sacco. Finita la
raccolta si pose il leggero carico sotto l'ascella, rimontò il viale
centrale dell'orto, spinse un rozzo uscio che s'apriva nell'interno e
penetrò in un andito umido e tetro che saliva a larghi gradini verso la
casa: ai lati si aprivano le porte delle stalle e l'umidità fredda del
luogo s'univa all'odore acido del letame. Sboccò in un cortile largo,
lastricato di pietra grigia; sul cortile dava un pretenzioso portone
barocco lavorato con qualche abilità, che faceva strano contrasto
con l'aspetto vecchio e rozzo della facciata screpolata, con le
imposte dei balconi che avevano perduta la vernice, e le ringhiere
corrose dalla ruggine. Passato il portone, Don Matteo dopo un altro
corridoio tappezzato di cattiva carta di Francia, dal cielo decorato di
foglie d'acanto e di uccelli azzurrini, con larghe chiazze di umido,
entrò in una larga cucina nerastra.
Una grossa donna vestita di nero con un gesto calmo, quasi
ritmico, alimentava con rami secchi di quercia il fuoco.
Entrato Don Matteo, lo salutò con un:– Presi molti?
– Eccoli.
La donna soppesò il sacco e disse:– Duecento.– Quasi.
Il prete alzò il coperchio del paiolo:– Bolle, cala.– Ancora un momento, – disse Fugnitta; s'avvicinò ai fornelli e
rimestò in un tegame dove cuoceva la carne.– Va bene, aspettiamo; il Colonnello è di là?– È nello studio: scrive.– È arrivato nessuno stamani?– Sí, è arrivato Don Gioacchino Petta.– E che ha portato?– Ora ve lo dico.
Fugnitta si raccolse un momento e poi dettò lentamente a Don
Matteo, che aveva tirato fuori da una tasca profonda delle brache un
quaderno unto e mencio e si preparava a scrivere:– Tre rotoli di lardo, quindici di pasta, un prosciutto, un rotolo di
sale, un quarto di fagioli, un barile di vino.
Don Matteo fece un rapido calcolo:– Basta un mese se tu non rubi niente.
Fugnitta s'era alzata dal focolare con un moto rapido, per quanto
le consentiva la sua grossa persona; s'era avvicinata ai fornelli e,
mentre nervosamente scoperchiava le teglie e rimestava, volgeva su
Don Matteo il suo viso gonfio di donna troppo nutrita:– Rubare? Voglio salvare la mia anima, io; ma c'è gente,
aggiunse scandendo le parole e posando su Don Matteo uno
sguardo carico di disprezzo, – che vive nel peccato e che alla sua
anima non ci pensa.– Basta Fugnitta.
Come se qualcuno all'improvviso l'avesse punto su una piaga
segreta il prete fece alcuni passi rabbiosi per la cucina con le mani in
alto; come per rivolgersi, con una minaccia, ad un assente che fosse
invisibile, in alto.– Basta, – riprese, – ricominci sempre con quella storia, è ora di
smetterla, capisci?
– Non sono io che incomincio, – soggiunse Fugnitta dolcemente.
Intinse le dita nel tegame e ne tirò fuori un pezzo di carne stillante di
sugo che depose in un piatto e offrí a Don Matteo:– Tenete, assaggiate, deve essere cotta...– Lascia, non ho voglia di mangiare.
Fugnitta senza replicare aprí la madia, prese una pagnotta se
l'appoggiò al seno soffice e con un gesto generoso e largo ne tagliò
una fetta che mise sulla tavola accanto alla carne.– Vi siete alzato presto, e a quest'ora chissà che fame avete.
Fugnitta era diventata materna; i rifiuti di Don Matteo non
l'avevano scossa, sapeva che avrebbe accettato. La disputa,
l'offerta, i gesti, sembravano tempi di un'azione ripetuta chissà
quante volte che si svolgeva senza possibilità di cambiamento.
Don Matteo accostò la sua seggiola al tavolo, si segnò, biascicò
tra le labbra qualche parola latina, poi cominciò a mangiare
voracemente. Via via che il cibo passava nello stomaco, qualcosa di
teso e bilioso che c'era nel suo viso magro si stendeva, la fronte si
spianava.
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