Segreti sepolti – Lisa Unger

SINTESI DEL LIBRO:
È buio, quel buio orribile in cui riesci a distinguere gli oggetti ma non
gli spazi neri che li dividono. Ho il respiro affannato per lo sforzo e la
paura. L’unica persona al mondo di cui mi fidi giace sul pavimento,
accanto a me. Mi chino su di lui e sento che respira ancora, ma con
grande difficoltà. È ferito, lo so. Ma non riesco a capire quanto sia
grave. Lo chiamo sussurrandogli all’orecchio, ma non mi risponde.
Sento il suo corpo, ma non capisco se sta perdendo sangue. Il
rumore che ha fatto quando ha colpito il pavimento, pochi minuti fa,
è stato il più agghiacciante che abbia mai sentito.
Tasto il pavimento attorno a lui, alla ricerca della sua pistola. Dopo
qualche secondo sento il metallo freddo sotto le dita e quasi mi
metto a piangere dal sollievo. Ma non ho tempo.
Sento la pioggia che cade fuori dall’edificio bruciato, le gocce
pesanti che colpiscono il telone di plastica. Penetra anche all’interno,
insinuandosi nei buchi nel tetto e ricadendo sul pavimento di legno
marcio e su scalinate distrutte. Il corpo si muove e mugola piano. Lo
sento che mi chiama e mi avvicino.
«Va tutto bene. Andrà tutto bene» gli dico, anche se non ho motivo
di credere in ciò che ho appena detto. Da qualche parte, là fuori o
sopra di noi, un uomo che pensavo di amare, insieme ad altri che
non riconosco, sta cercando di ucciderci, per proteggere la verità
orribile che ho scoperto. Anch’io sono ferita e provo così tanto dolore
che potrei svenire, se solo farlo non significasse morire qui, in
questo edificio del Lower East Side di Manhattan. Qualcosa si è
conficcato nella mia coscia destra. Forse è un proiettile, o un pezzo
di legno, o magari un chiodo. È così buio che riesco a malapena a
vedere il foro nei jeans, ma credo che il tessuto sia nero di sangue.
Sono frastornata, mi gira la testa, ma tengo duro.
Adesso li sento sopra di noi, vedo le luci delle loro torce incrociarsi
nel buio attraverso i buchi nel pavimento. Cerco di controllare il
respiro, che mi sembra faccia il chiasso di un treno in corsa. Sento
uno di loro dire: «Credo che siano caduti là sotto». Nessuna
risposta, ma li sento avvicinarsi tra scricchiolii di legno.
Lui si irrigidisce. «Arrivano» dice, la voce poco più che un sussurro.
«Vattene di qui, Ridley.»
Non gli rispondo. Sappiamo entrambi che non me ne andrò. Lo
afferro e lui cerca di alzarsi, ma sul viso gli appare una smorfia di
dolore più eloquente del grido che ha soffocato per proteggerci. Se
non ce ne andiamo insieme, allora non ce ne andremo affatto. Lo
trascino, anche se so che non dovrei muoverlo, fino a un vecchio
divano che giace rovesciato vicino a una parete. Vedo quanto soffre.
Mentre lo sposto perde nuovamente conoscenza e all’improvviso
sembra che pesi venti chili in più. Ma ho visto che riesce a muovere
tutti gli arti, ed è già qualcosa. Realizzo che mentre lo trascino sto
pregando, con la gamba in fiamme, le forze che stanno per
abbandonarmi. Ripeto: Ti prego, Dio, ti prego, ti prego, come un
mantra.
Il divano rovesciato crea una piccola nicchia contro il muro,
abbastanza grande per entrambi. Ce lo infilo e mi stendo sulla
pancia accanto a lui. Tiro una vecchia cassa fino al divano e sbircio
attraverso le assi di legno. Sono più vicini e sono certa che ci
abbiano sentiti, perché hanno smesso di parlare e hanno spento le
torce. Stringo la pistola con tutte e due le mani e aspetto. Non ho
mai sparato prima d’ora e non so neanche quanti proiettili siano
rimasti. Credo che moriremo qui.
«Ridley, ti prego, non farlo.» La voce riecheggia nel buio e sembra
provenire dall’alto. «Possiamo risolvere tutto.»
Non rispondo, so che è un trucco. Ormai non possiamo più
risolvere un bel niente, ci siamo spinti tutti troppo oltre. Ho avuto fin
troppe possibilità di chiudere gli occhi e lasciar perdere, ma non le
ho mai sfruttate. Sono pentita? È difficile dirlo, ora che gli spettri si
avvicinano.
«Sei…» sussurra lui.
«Che?»
«Restano sei pallottole.»
2
Fino a poco tempo fa, la mia vita è stata relativamente povera di
eventi di rilievo. Il che non significa che mi stessi trascinando senza
scopo, prima che la circostanza che sto per condividere con voi
ribaltasse il mio mondo. Tuttavia, ora che mi ci fate pensare, non è
che facessi poi chissà cosa. Eppure ho motivo di credere che non
sia stato un fatto preciso, ma un numero infinito di piccole decisioni a
condurmi alle circostanze che hanno cambiato così profondamente
sia me che quelli che mi circondano. Alcuni sono morti, tante vite
sono state sconvolte, la verità non ci ha reso affatto liberi ma ha
distrutto pezzo per pezzo una facciata costruita con grande
maestria, e ci ha lasciati nudi e al punto di partenza.
Mi chiamo Ridley Jones e, quando tutto è cominciato, ero una
giornalista trentenne che viveva da sola in un appartamento dell’East
Village, lo stesso che occupavo quando studiavo alla New York
University. Era annidato al terzo piano di un condominio senza
ascensore, all’angolo tra la First Avenue e l’Undicesima, sopra una
pizzeria chiamata Five Roses. Con il suo portone a sbarre di ferro
nere, i corridoi bui e i pavimenti imbarcati, l’onnipresente aroma di
aglio e olio d’oliva, aveva un certo fascino. Ed era incredibilmente
economico, mi costava solo ottocento dollari al mese. Se conoscete
New York, saprete che pagare così poco è quasi impossibile, anche
accontentandosi di un appartamento di sessanta metri quadrati con
una sola camera da letto che dà su un cortile pieno di cani arrabbiati
e ha come unica visuale le stanze degli inquilini del condominio di
fronte. Ma il posto non era male, e mi ci trovavo bene. Perfino
quando ho potuto permettermi qualcosa di meglio sono rimasta lì,
solo per avere intorno uno spazio familiare e restare vicino alla
miglior pizza di tutta New York.
Forse vi state chiedendo che razza di nome sia Ridley. Mio padre è
il dottor Benjamin Jones, un pediatra del New Jersey che vive in una
lussuosa e comodissima casa vittoriana con mia madre, ex ballerina
casalinga che lui ama, ricambiato, sin dai tempi in cui si conobbero
alla Rutgers, nel 1960. Ebbene, mio padre si era sempre lamentato
del suo cognome così banale. Gli sembrava il classico che si dice
alla gente quando non si vuol far conoscere la propria identità, come
Smith o Black. Crescendo, questa estrema banalità aveva
cominciato quasi a metterlo in imbarazzo. Era stato cresciuto in un
triste sobborgo di Detroit, Michigan, da persone normali che gli
auguravano una vita normale. Ma lui normale non si sentiva, e
quando era arrivato il suo turno di dare un nome alla figlia non aveva
voluto farle credere di aspettarsi da lei un’esistenza ordinaria come
avevano fatto i suoi con lui. Mi chiamò Ridley, come Ridley Scott, il
regista. Era da sempre un appassionato di cinema. Pensava fosse
un nome insolito per una ragazza, un nome speciale che mi avrebbe
incoraggiata a condurre una vita straordinaria. Ed era convinto,
sapendomi giornalista a New York, be’, che mi ci stessi impegnando.
Anche prima del verificarsi degli eventi che sto per raccontarvi,
suppongo che, a modo mio, fossi davvero straordinaria. Questo,
forse, solo perché amavo i miei amici, ero felice, mi piacevo (tranne
le cosce), mi piaceva il mio lavoro e il luogo in cui vivevo. Ho avuto
relazioni piacevoli con gli uomini, anche se finora non ho mai
incontrato il vero amore. Chi vive a New York, sa che queste sono
cose veramente straordinarie.
Eppure c’era così tanto che non sapevo, così tanti strati nascosti di
un passato di cui non ero a conoscenza. Non voglio credere che una
tale ignoranza fosse la causa della mia relativa felicità, ma suppongo
che voi, invece, lo pensiate. Di sicuro, comunque, adesso qualcosa
in me è cambiato. Il mondo è un luogo diverso, e la felicità, la vera
pace, sembra ormai irraggiungibile. La donna che ero un tempo mi
sembra un’inguaribile ingenua. La invidio.
Quando mi guardo indietro, mi meraviglio di come il corso della mia
vita non sia stato modificato da quelle che considero le scelte più
importanti che ho fatto. Sono state le mie decisioni apparentemente
più insignificanti a cambiare tutto. Pensateci. Pensate agli eventi
improvvisi che vi sono capitati. Non è stata sempre una questione di
secondi? Non sono state le scelte più innocue a portarvi ad
attraversare una certa strada, o a mettervi fuori pericolo, o a farvici
cadere proprio in mezzo? Sono queste le cose che ci cambiano, in
fondo. Chi sposiamo, che lavoro scegliamo, come veniamo cresciuti,
questo è il quadro generale. Ma, come si dice, il diavolo è nei
dettagli.
Bene, parliamo dei dettagli, allora.
Era un lunedì mattina a New York, l’autunno stava cedendo il
passo all’inverno e nell’aria già si sentivano i primi freddi. Era il
periodo dell’anno che preferivo, quando il caldo opprimente e
l’umidità intrappolata nelle pareti di cemento si sollevavano,
lasciandosi alle spalle una città nuova.
Quando mi svegliai, quel lunedì, per via della scarsissima luce che
filtrava dalla finestra, capii subito che sarebbe stata una giornata
uggiosa. Il vetro era coperto di gocce di pioggia. Fu questo il
minuscolo dettaglio che influì sulla mia prima decisione. Allungai il
braccio, afferrai il cordless sul comodino e composi il numero.
«Ufficio del dottor Rifkin» rispose una voce, piatta come un
marciapiede.
«Sono Ridley Jones» dissi fingendo di avere il mal di gola. «Mi è
venuto un brutto raffreddore. Potrei venire comunque, ma non vorrei
far ammalare il dentista.» Aggiunsi anche un patetico colpo di tosse,
per dare enfasi. Il dottor Rifkin era il mio dentista, un omino che si
prendeva cura dei miei denti sin dal mio primo anno di università.
Con la sua lunga barba bianca e il ventre prominente, camicia a
scacchi e bretelle, scarpe ortopediche e una tenerissima andatura
ondeggiante, mi deludeva sempre quando apriva bocca e parlava
con un pesante accento di Long Island. Io me lo immaginavo
scozzese, accidenti.
«Le sposto l’appuntamento» disse zelante la segretaria, che
probabilmente non se l’era bevuta nemmeno per un secondo ma
non gliene importava granché.
E così ero libera. La libertà, devo dire, per me è la cosa più
importante, più della giovinezza, della bellezza, della fama o del
denaro. Forse non più importante dell’amore, ma dentro di me sono
molto indecisa in proposito, come confermerebbero alcune persone
che mi conoscono bene. Una di queste è Zachary.
«Colazione da Bubby’s?» gli dissi quando rispose. Ci fu una pausa
in cui lo sentii girarsi nel letto. Qualche mese fa forse mi sarei trovata
lì con lui.
«Non devi lavorare?» mi chiese.
«Sono a progetto, lo sai» dissi, fingendo indignazione. Era vero:
avevo appena portato a termine un incarico ed ero in attesa del
prossimo, ma non era certo un problema, per tutta una serie di
motivi.
«A che ora?» mi chiese, e nella sua voce sentii quel triste
miscuglio tra speranza e rimorso che percepivo spesso quando gli
parlavo.
«Facciamo tra un’ora?»
«Okay, a dopo.»
Zachary era l’uomo che avrei dovuto sposare. Le nostre vite erano
intrecciate sin da quando eravamo piccoli. I miei lo adoravano, forse
più di mio fratello. Alle mie amiche piaceva un sacco, con quei suoi
capelli biondo sabbia e lo sguardo luminoso, il corpo atletico, una
carriera da pediatra affermata e il modo in cui mi trattava. Perfino io
lo adoravo. Ma ogni volta che si trattava di prendere una decisione,
esitavo. Perché? Paura di impegnarmi? In tanti la pensavano così.
Ma non io. Posso solo dire che per me le parole «per sempre» non
erano compatibili con Zachary. Non c’era niente di preciso che non
andasse bene. Eravamo grandi amici, il sesso era piacevole,
condividevamo la passione, tra le altre, per la sala dei dinosauri al
Museo di Storia naturale e per il gelato alla vaniglia. Ma l’amore è
ben più che la somma delle sue parti, giusto? In sostanza, tenevo a
lui così tanto che pensavo si meritasse una persona che lo amasse
più di me. Se questo per voi non ha molto senso, be’, non siete gli
unici. I miei genitori e la madre di Zack, Esme (cui a volte mi sento
più vicina che alla mia) sono rimasti sconvolti dalla mia decisione.
Da quando eravamo bambini fantasticavano in maniera neanche
troppo velata su un possibile futuro insieme. Perciò, quando
abbiamo cominciato a uscire, loro erano entusiasti. E quando ci
siamo lasciati credo che abbiano avuto molta più difficoltà di me e
Zack a superare la cosa.
Quella mattina, lui e io cercavamo di essere amici. Avevo posto
fine alla nostra relazione poco più di sei mesi prima e avevamo
avuto un po’ di difficoltà a dare avvio a quella che speravo potesse
diventare una duratura amicizia, per via della delusione e dei
sentimenti feriti (e, credo, anche per orgoglio). A volte era
imbarazzante vedersi, ma ero fiduciosa.
Scesi dal letto e lo spinsi di nuovo contro la parete. Vi ricordate
quando ho parlato di pavimenti imbarcati? Be’, nel pavimento della
mia camera c’è una vera e propria discesa. Dato che ho un letto a
rotelle, a volte mi sveglio, soprattutto dopo una notte particolarmente
agitata, e mi accorgo di essere finita al centro della stanza. È un
inconveniente di poco conto, alcuni potrebbero addirittura definirlo
una nota di colore nel folklore dell’East Village.
Feci scorrere l’acqua nella doccia e chiusi la porta, per riempire di
vapore il minuscolo bagno a piastrelle bianche e nere. Ascoltando il
rumore della pioggia andai in cucina e misi su il caffè. Con la mente
ancora annebbiata dal sonno aspettai che l’acqua bollisse e che
l’aroma del caffè si diffondesse per la cucina. In lontananza sentivo i
rumori della First Avenue e l’odore dei pasticcini di Veniero’s, la
pasticceria dietro il mio condominio il cui sistema di ventilazione
diffondeva ogni tipo di profumo nel mio cortile. Diedi un’occhiata alle
finestre dell’edificio di fronte: il chitarrista avvenente aveva ancora le
tende chiuse, la coppia gay era pronta per andare al lavoro ed era
seduta al tavolo della cucina con due grosse tazze di caffè (il biondo
leggeva The Village Voice e l’altro il Wall Street Journal); la ragazza
asiatica faceva il suo yoga mattutino mentre la sua coinquilina
sembrava leggere qualcosa ad alta voce nell’altra stanza. Per via del
freddo, tutte le finestre erano chiuse e le vite di queste persone si
svolgevano davanti a me come su schermi televisivi accesi in muto.
Erano dettagli accessori della mia mattinata, come lo ero io per loro
quando guardavano fuori dalla finestra e mi vedevano in cucina, in
attesa che fosse pronto il caffè.
Come ho già detto lavoravo a progetto. Avevo appena consegnato
un profilo di Rudy Giuliani per la rivista New York ed ero stata pagata
piuttosto bene. Avevo un altro paio di lavori che bollivano in pentola,
progetti che avevo inviato a editori che mi conoscevano dai tempi in
cui lavoravo per Vanity Fair, The New Yorker e The New York Times.
Lavoravo regolarmente da quasi sette anni ed ero fiduciosa che,
presto o tardi, qualcuno di questi progetti si sarebbe trasformato in
un incarico stabile. A me comunque questa formula andava bene.
All’inizio, la storia del lavoro freelance era stata un problema. Se i
miei non avessero integrato i miei magri guadagni subito dopo la
laurea, probabilmente sarei stata costretta a tornare a vivere con
loro. Tuttavia sono una persona con un po’ di talento, una
professionista seria che rispetta le scadenze e una scrittrice dall’ego
limitato, che accetta di buon grado suggerimenti e correzioni, e ha
saputo costruirsi una buona reputazione e un’utile rete di contatti. Il
resto me lo sono guadagnato con il sudore della fronte.
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