Se l’acqua ride – Paolo Malaguti

SINTESI DEL LIBRO:
Se non apro gli occhi forse funziona: notte in eterno, a ramengo il
mattino, pensa Ganbeto. Gesú mio, senti qua, tu lasciami a letto e io
non faccio piú peccato. Almeno fino a domenica.
Macché, niente miracolo. È ora. Non ci è cascato.
Il
respiro tranquillo di Luciano è un sottofondo che Ganbeto
ascolta, e un po’ lo invidia, quel sonno sereno. Ogni tanto suo
fratello si muove, emette un lieve gemito di sogno. Forse sogna il
babàu del sottoscala. Che macaco.
Ganbeto è già qualche anno che non ha piú paura del babàu, né
di mostri, spiriti o strìe: sono fole buone per i bambini che ancora
mangiano polenta e latte. Al mondo ci sono ben altre cose di cui
aver paura: la contessa con le mutande rosse, ad esempio. Il suo
fantasma vaga nel castello del Cataio, pronto a spasimare chi si
avventuri incautamente nel dedalo di saloni deserti dopo il tramonto.
Ganbeto ci ha riflettuto seriamente con Scaia, rincasando dopo il
rosario, il maggio passato: fantasma sí, però di una contessa, e
soprattutto in mutande. Forse valeva la pena andare in
perlustrazione, una notte di quelle.– Basta che l’abbia indosso mutande serie, – aveva precisato
Scaia, che al pensiero sentiva già le farfalle nello stomaco. – Mica
come i mudandoni di mia nona, voglio le mutande de la bionda de
007, quella là che vien fuori da l’acqua.
A dirla tutta lui il film non l’aveva visto, film come quello li
mandano solo a Padova. Però suo papà un sabato l’aveva portato
da Lalo, il barbiere.
Aveva aspettato con pazienza che suo padre si sedesse davanti
allo specchio, poi aveva aspettato ancora che, finita la sbarbata,
Lalo gli mettesse il canovaccio caldo sulla faccia. A quel punto Scaia
era scattato come un gatto sulla bistecca, e aveva sfogliato
rapidamente una copia di «ABC» messa bene in mostra sul tavolino,
mandando a memoria, col cuore che gli batteva in gola, tutte le foto
che aveva potuto intravedere. Lalo aveva lasciato un po’ piú a lungo
suo padre a godersi il tepore dell’asciugamano, dicendo che doveva
andare a prendere il talco nel retrobottega.
Ganbeto si rigira nelle coperte, ma le morbide curve e i capelli
biondi del fantasma non attecchiscono nei suoi pensieri.
Nell’orto i merli iniziano a salutare l’alba: le giornate si sono
accorciate, se aprisse le imposte di certo vedrebbe le ombre scure
degli uccelli saltellare tra le foglie ingiallite del noce, in attesa della
bora per l’ultimo volo. Sembra un altro mondo quello delle rondini
che sfrecciavano nell’aria azzurra, in traiettorie precise fino ai nidi
sotto la gronda del tetto. Eppure sono passate solo poche settimane.
Tutto cambia, non è una novità. Ma quando tutto cambia in cosí
poco tempo, è piú difficile da digerire.
Ganbeto riconosce i passi della mama, giú in cucina. Per un
attimo pensa di scendere anche lui, poi l’idea dell’attesa lo spaventa.
Si limita a seguirla nei rumori sempre uguali del lento avvio della
giornata: ecco che accende il fuoco nella cucina economica. Non gli
piace, quell’acquisto di un paio di anni prima, preferisce il grande
focolare, che però ormai usano solo d’inverno, per San Silvestro o
Natale. Suo papà ci piazza una zocca che arde tutta la notte,
spandendo tepore e mandando di quando in quando lente falive su
per la cappa.
La mama esce per andare a prendere il latte dal Berto, che ha le
vacche in fondo alla via. Al rientro mette a scaldare l’orzo per loro, il
caffelatte per il padre. E alla fine ecco i passi cauti lungo le scale,
evitando il quarto gradino per non svegliare Luciano, che può
godersi il sonno un altro po’.
Ganbeto caccia la testa sotto il cuscino, finge di dormire, finché
non sente la mano appoggiarsi sulla spalla, dolcemente. Quello non
è un giorno come gli altri.
Quando scende di sotto, evita di guardare il grande tavolo in
cucina, non si sente ancora pronto, ed esce diretto al cesso in
cortile. Sono ormai tanti, in paese, a farselo mettere in casa, suo
padre dice che se le cose vanno bene con l’anno nuovo tocca a loro.
È già passato Manina, il muraro, per dare un occhio al pianterreno.
Ha toccato i muri e preso due misure con la matita grassa su un
pezzo di carta.
Tutti fino a ieri avevano il cesso in cortile, ora all’improvviso pare
diventata una cosa da turchi. Il vecchio Giobatta, nonno di Scaia e
mutilato dell’altra guerra, quando sono arrivati i murari ha tirato giú
santi e madonne dicendo che era un’idea da macachi sporcaccioni
quella di mettersi il cesso attaccato al letto, e che anche in trincea
davanti alla Piave, dove pure c’erano topi grandi come gatti e
pidocchi grandi come topi, avevano avuto il buon senso di scavare le
latrine lontane dai baraccamenti.
Quando infine il padre di Scaia aveva tolto il cesso dal cortile,
perché i compaesani vedessero anche dalla strada che avevano
fatto «la spesa», era andata a finire che nonno Giobatta, testardo,
ogni mattina prendeva il suo bravo foglio di giornale con l’unica
mano lasciatagli dall’Italia vittoriosa e partiva in bicicletta fin fuori il
paese, dove si era fatto in qualche maniera un cesso vicino al fosso.
Ogni tanto il paròn del campo che lui andava a concimare passava lí
vicino e salutava, ridendo sotto i baffi: – Chi si ferma è perduto,
Giobatta!
Giobatta, accovacciato tra gli arbusti, rispondeva sempre: – È
perduto chi si ferma in mona de to mare.
Ganbeto l’aveva finalmente visto, il «bagno» (non era piú da
chiamarsi «cesso») a casa di Scaia, ed era rimasto impressionato
dalle mattonelle lisce e bianche, dal lavandino e dal grande bollitore.
Gli era rimasta in effetti una curiosità, e alla fine aveva dovuto
buttarla fuori: – Cossa che serve? – aveva sussurrato, indicando il
recipiente basso e oblungo di porcellana bianca, con due rubinetti,
vicino al vate. Scaia aveva alzato le spalle, confessando che suo
papà si era vergognato di mostrarsi ignorante coi murari e col
dràulico, e cosí non aveva chiesto niente. Alla fine avevano dedotto
che era per lavarsi i piedi, e cosí facevano. Ogni tanto sua mamma
ci lasciava la notte i fagioli secchi a riprendersi.
L’aria in cortile è fredda, frizzante. L’erba è umida anche se non
ha piovuto, anzi, il cielo è terso, promette una giornata come solo
l’autunno riesce a darne, di quelle da correre nei campi senza
sudare, con il sole ancora alto, e la terra già arata e pronta al riposo
che manda il suo caldo profumo di zolla. Una giornata da giochi, o
da lavori all’aperto. Non certo da chiudersi in un’aula, e per giunta
seduti.
Quando rientra in cucina Ganbeto trova anche suo papà, intento a
bere in silenzio il caffelatte. Il suo destino lo aspetta a capotavola: la
cartella è quella dell’anno prima, di cartone rigido foderato di tela
rossa, con le due cinghie per le spalle già un po’ rovinate. La mama
gliela aveva sottratta a giugno, e l’aveva messa al sicuro. Chissà, se
l’avesse avuta sotto gli occhi durante l’estate adesso non avrebbe un
magone grande cosí a guardarla, o forse l’avrebbe avuto, anche se
piú leggero, ogni santo giorno.
Alcuni suoi compagni hanno una cartella di cuoio scuro, con
un’unica cinghia da tenere a tracolla, che sembra quella del postino
o quella degli operai della Fabrica. Con una cartella cosí, almeno si
sarebbe sentito piú grande.
Il
resto è tutto in ordine, già controllato e ricontrollato la sera
prima: quaderni, matita, pennini, alcuni libri, per gli altri bisogna
aspettare qualche giorno che arrivino da Padova. «I professori
capiranno», aveva detto il cartolaio. Bravo, mica c’è lui, in aula.
Sta per alzarsi quando suo padre si agita sulla sedia, e mugugna:– Prendi su qua –. Gli allunga un involto legato con lo spago.
Ganbeto riconosce il cartoncino della merceria del paese. Regali del
genere, se di regalo si tratta, sono previsti per la Befana, e
comunque è compito della mama consegnarli.– Trattarlo ben! – borbotta suo padre tornando al caffelatte. La
mama non rinuncia ad avere un po’ di voce in capitolo e conclude:
L’ha detto il prete che non l’è sconveniente.
Ganbeto strappa la carta, e subito la malinconia di quel momento
svanisce come al mattino la nebbia sulla campagna arata di fresco: il
Diario Vitt. L’aveva puntato già l’anno prima, inutilmente. «Ratatuia»,
aveva sentenziato la mama, chiudendo la discussione ancora prima
che iniziasse.
Ed eccolo lí, tra le sue mani, con la copertina dai colori vivaci e i
disegni buffi, senza senso e perciò affascinanti. Non può fare a
meno di vedere il prezzo, 200 lire, e non può fare a meno di sentirsi
in colpa per quello che adesso gli sembra uno spreco, un azzardo,
un attentato alle finanze familiari. Ma dura un istante solo, spazzato
via dalla gioia pregustata di mostrare il diario a Scaia e agli altri.
È ormai pronto a uscire quando Luciano si sveglia (le elementari
iniziano dopo). Il fratellino fa appena in tempo a salutarlo dal letto,
ancora mezzo rimbambito: – Ciao Ganbeto –. La mama gli corre
dietro: – Me racomando le orazioni per strada. E fatti chiamare col
tuo nome. Non Ganbeto. E neanche Baretta.
Suo padre si alza da tavola: – A noialtri ci chiamano Baretta da
non so quanto tempo: perché non l’ha da farse chiamar Baretta?– Non sta bene. A scuola bisogna farsi chiamare col nome di
battesimo. E col cognome, mica con la menda.
L’italianità rotonda, anche se vagamente affaticata, dell’ultima
frase, mette a tacere ogni possibile protesta. Sollecitato dal Baretta,
il soprannome della sua famiglia, Ganbeto domanda: – E il nono?
Suo padre alza le spalle scuotendo la testa: – El doveva rivar
casa ieri sera. El se sarà fermà a bere ombre da la Gigia.
L’assenza del nonno gli dispiace, anche se in modo confuso:
capisce che qualcosa manca, che non può farci niente, e sente che
questa imprecisione, questo franare della realtà di fronte alle
aspettative, non è un incidente di percorso, ma una delle nervature
fondanti dell’esistere.
In qualsiasi altro giorno per arrivare alla scuola avrebbe tagliato
attraverso campi e orti, senza seguire la strada maestra, ma oggi
non può, ha le scarpe buone, non solo rischierebbe di inzaccherarle,
ma, peggio, nella terra morbida di certo le perderebbe, perché sua
madre gliele ha prese in crescere, col risultato che ci balla dentro,
anche con due solette e la carta di giornale in punta.
La suola canta sul selciato, al punto che gli viene quasi da battere
il passo, come i soldati. Quanto si stava meglio a piedi nudi. Dietro a
questo semplice pensiero tutto attorno a lui scolora e svanisce:
mentre continua a camminare un po’ piú lentamente del dovuto,
nella
sua mente si accampa, con la chiarezza propria
dell’immaginare dei ragazzi, uno dei momenti dell’ultima estate che
ora, tra i tanti, piú gli manca.
un giorno qualsiasi del luglio precedente
Era già passato un po’ di tempo dall’inizio dell’estate, ma la fine
era ancora lontana: un’eternità di vita davanti, prima dell’autunno.
Avevano scelto una piarda tranquilla per gettare le ancore. Il nonno
Caronte aveva pensato di passare lí la notte, l’ultimo carico era stato
consegnato la mattina, il ritorno poteva essere lento, e lo sarebbe
stato.
Quando dopo cena rimanevano un po’ sopracoperta, suo nonno
se ne stava seduto come in trono, e suo padre, steso su un fianco, si
sistemava appena piú sotto, sulla coperta da prora. Ganbeto invece,
se il burcio era carico, preferiva stravaccarsi sui sacchi, se era
grano, o direttamente sulla scaia con cui si fa il cemento, o sulla
rena ancora tiepida per il sole da poco tramontato, ma umida,
rinfrescante.
Se la piarda correva vicino a una macchia, nella penombra partiva
presto il concerto delle rane, a volte arrivava un’intera luminaria di
lucciole che pareva infestonare il burcio come per le processioni
della Vergine. E poi passava sempre qualcuno, sull’argine, che
fermava la bici e scendeva volentieri a far quattro ciacole, sentire da
Caronte come andavano le cose nel mondo, e bere un goto di rosso.
Quel giorno però giusto al tramonto era arrivato improvviso uno
scravasso, con tuoni che rotolavano come barili, e allora si erano
ritirati subito nel palcheto. Suo padre, stanco per aver aiutato i
cariolanti nel lavoro di scarico, dopo pochi istanti già russava.
Ganbeto provava un po’ di imbarazzo a rimanere cosí, al chiuso e
nello stretto, con suo nonno: all’aperto si poteva permettere di
lasciare andare lo sguardo intorno, se ne stava nel buio ad ascoltare
il parlottio lento e uguale dei grandi, e non di rado si addormentava
cullato dall’impercettibile rollio del burcio.
Suo nonno si era acceso il mezzo toscano, seduto con le gambe
a penzoloni tra palcheto e paiòlo, e si era messo a contemplare
l’ampia stiva vuota. Era passato un tempo indefinibile, Ganbeto
stava quasi per decidersi ad andare a far compagnia a suo padre nel
mondo dei sogni, quando all’improvviso la voce del nonno arrivò alle
sue orecchie. Il vecchio gli dava le spalle, era immobile e l’unico
segno di vita, oltre a quel borbottio, veniva dalle volute di fumo
azzurro che si levavano sulla sua testa, nel basso ambiente
illuminato a malapena dal canfìn.
Caronte non gli parlava spesso. Fin dal primo giorno sul burcio
piú che altro gli aveva lanciato ordini, rimproveri, battute sferzanti,
ma niente che potesse essere assimilato a una conversazione vera
e propria.– Una sera, pensa che ero ancora morè… sarà stato el
venticinque… Il paròn del burcio me ga portà in osteria, l’era la mia
prima volta… era di novembre, da le parti de Brondolo. In osteria
c’era un vecio barcaro.
Il nonno si interruppe, spessi pennacchi di fumo sostituirono le
sue parole, sfaldandosi fra le travi sulle loro teste. Ganbeto non
capiva se Caronte stesse cercando di ricordare, o se quel silenzio
fosse dovuto alla matassa troppo densa e improvvisa di memorie
assiepate dietro la fronte rugosa.– El nome del barcaro l’era Bepi S’ciona. A un bel momento Bepi
S’ciona mi dice «vieni con me, bocia». Il paròn mi fa «vai, niente
domande». Fuori da l’osteria l’era scuro, caligo fitto, non si vedeva
un’ostia.
Caronte aveva seguito Bepi S’ciona nella stiva vuota del suo
burcio. Lí Bepi gli aveva indicato, senza parlare, delle macchie
ampie e scure, che disegnavano strane forme lungo il fasciame e sul
paiòlo. Poi si era messo a frugare nel cassòn, tanto che il nonno
aveva temuto che ne estraesse un coltellaccio per farlo a tocchi e
buttarlo ai pesci, come nelle fole.
Invece Bepi aveva tirato fuori un elmetto taliano, di quelli dell’altra
guerra, e aveva parlato: nel ’18, come tutti i barcari in volta tra Po e
Sile, anche lui dava una mano all’Italia portando roba sul suo burcio.
Quell’autunno, però, a lui e agli altri era arrivato l’ordine di navigare
vuoti fino alla Piave. Erano saliti a bordo due fanti, ognuno con un
rampino, e via, a pescare i morti che scivolavano bianchi sull’acqua
gialla e spumosa. Taliani, kakàni, tanti senza barba, che parevano
puteleti in divisa.
Quelle macchie sulla banda morta, aveva rivelato alla fine Bepi
S’ciona, erano il sangue rimasto dopo che i morti erano stati
scaricati. Non era piú stato capace di lavarlo via.
Ganbeto ascoltava rapito. Difficile dire se il fascino maggiore
fosse dato dalla consapevolezza che anche suo nonno era stato un
ragazzo, e per di piú un morè come lui, o da quella storia di morti
senza nome e senza tempo. Caronte tirava dal toscano ormai ridotto
a un mozzicone. A un certo momento ebbe un sussulto, batté le
nocche sul fasciame della Teresina, e borbottò, segnandosi in fretta:– Ave pater mater dei sicuterio principio.
Si girò infine verso Ganbeto con lo sguardo acquoso, distante, e
concluse: – Andemo a dormir, bocia, che doman se lavora.
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