Santa Maria delle Battaglie – Raffaele Nigro

SINTESI DEL LIBRO:
La nestra è a qualche metro da noi e davanti a me c’è un letto. Ci
dorme una ragazza di diciott’anni. Ha i capelli corti e neri, gli occhi
verdi e io la veglio, toccata dalla sua disgrazia, scruto ogni suo
piccolo movimento e le racconto storie nella speranza di riempire la
scatola della memoria che al momento è svanita come la sua
coscienza. Gliele racconto quando siamo sole e al buio, mentre lei è
in un dormiveglia che non so dire quanto sia vigile. La notte mi è
amica, col suo silenzio avvolgente. Perché di giorno un televisore
sistemato su un tavolo angolare di fronte a noi spezza la quiete, ci
riempie di schegge di eventi e di accidenti che ci descrivono in
modo caotico il caos. Lo ha fatto installare Magdalena, di proposito,
per compagnia alla glia. Per tenerla sveglia.
La ragazza si chiama Federica, è bellissima. Ma essere bella ora
non le serve, perché è stata vittima di un terribile incidente. Un
impatto violento, mille volte più forte di quello che abbiamo
avvertito poco fa contro la nestra e si è accasciata in un sonno
profondo simile al coma. Proprio così, racconto storie a una ragazza
svanita. Anzi: una storia. La nostra, mia e sua. Perché gliela
racconto? Perché ho preso un impegno con la madre. Mi ha chiesto
in più momenti di sconforto di operare un miracolo, provare a
svegliare la glia e ridarle ciò che ha perduto, la memoria. Un
miracolo che stento a realizzare. Perché io non so fare miracoli, non
ne ho mai fatti.
«Un tentativo» ha detto lei, «prova a risvegliarmela.»
Seguo un esempio cui ho assistito molti anni fa, l’esempio di una
rimediante, una raccoglitrice che sapeva raccontare e risvegliare.
Una certa Ardeniza.
Ogni tanto Federica spalanca gli occhi, agita una mano come l’ala
di un gabbiano, ma non credo che abbia coscienza del reale. Lei vive
in un altro luogo, in un mondo a parte, dove c’è tutto quello che gli
uomini vedono. Ma non c’è quello che gli uomini pensano, ciò che
c’era ieri, l’altro ieri, ciò che ci sarà domani. Lei probabilmente non
sa chi è, non ricorda chi siamo, cosa ha fatto nora e forse neppure
che si chiama Federica. Federica Cacciante. O forse sa tutto questo e
non ce ne mette a parte, perché quando prova a parlare emette dei
suoni incomprensibili, agita la mano sinistra, perché la destra è
paralizzata, come è paralizzata la gamba. Il professor Lamorgese, un
uomo minuto e gentile, sostiene che un grumo di sangue le ha
occluso la parte del cervello che muove il lato destro del corpo e
articola la lingua. Viene a trovarla frequentemente, si trattiene con
Bruno Cacciante per ore, dialogano di medicina e del senso della
vita.
«La scienza ha fatto grandi passi» prova a consolarlo Vito
Lamorgese, è un mezzo e cace per lenire la di coltà del vivere.
Bruno è d’accordo, ma solo in generale, mentre si mostra scettico
per il caso della glia. Perché in altri momenti Lamorgese ha
spaventato Bruno e Magdalena dicendo che Federica potrebbe
restare così tutta la vita, altri cinquanta sessant’anni o potrebbe
chiudere la sua esistenza in soli tre giorni o tre mesi oppure riaversi
d’un colpo e stupire tutti. Li ha disorientati. Fortuna che lei riesce a
deglutire e a sostenersi. Ma è una foglia appesa a un albero,
attraversata da un lo di linfa. E basta. Posso chiamarla vita?
Il passero sbattuto contro il vetro l’ha svegliata. Federica spalanca
gli occhi, sbadiglia e sorride al so tto. Un grappolo di luci gialle,
come la coda di una cometa, sta attraversando la nestra. Dev’essere
la Sveti Stefan che scende da Dubrovnik, oppure la Sansovino che da
Venezia tocca Bar e prosegue per Bari e poi per Patrasso o per
Alessandria d’Egitto. Suppongo. Dal mio punto di vedetta, io, Maria
delle Battaglie, sistemata tra i soppalchi di una libreria, non posso
che supporre. Mentre si formano i pensieri i ricordi le parole dentro
la mia casa di legno e nel silenzio provo a pronunciarli, a o rirli a
questa povera ragazza che condivide il mio destino, è immobile
come me. Posso appro ttare per cominciare a raccontarle una storia
che la riguarda. La storia di un suo antenato, un Cacciante vissuto
tanti anni fa e o eso come lei. Ma più fortunato di lei, perché è
riuscito a risollevarsi. Ho pensato che una storia così le possa essere
di stimolo, di lievito.
Quelle stelle che attraversano la nestra mi ricordano gli sciami
di spari con i quali lui incendiava il cielo. Belisario Maria Cacciante,
un arti ciere e sparafuoco. Un grand’uomo.
Ma forse devo partire da un altro Cacciante, da Braccio, padre di
Belisario; o forse ancora prima, dai suoi nonni, i quali commisero un
errore che la gente non tollera, una colpa grave che io non accetto e
non condanno, perché la natura cerca tutte le strade per dare corpo
alle sue ragioni e l’uomo non sempre riesce ad arginarla. Una storia
che ho sentito raccontare in versi da un cantastorie, un certo
Colantonio Occhiostracciato, un ortolano di Bovino che sapeva
appena leggere e scrivere ma aveva una fantasia fertilissima e
compose una lunga ballata. Il cantare in ottave era diviso in tre
parti; la prima si chiamava Successo di un amore peccaminoso tra una
giovane e un vecchio sico che nella libertà scoprì il senso del vivere e
girò per almeno tre secoli nelle piazze e nelle ere di mezza Italia;
la seconda parte era invece la Crudelissima historia di Braccio
Cacciante che assaggiò una nobildonna della quale non doveva, mentre
la terza si intitolava Immaginosa historia di Belisario Maria Cacciante e
delle macchine di pirotecnia. E ora te le racconterò.
Storia di un desiderio molesto
Nel 1501, mentre i francesi combattevano tra la Calabria e la
Basilicata contro gli spagnoli, accadde in tenimento di Lucera un
fatto spaventoso tra Laviero Plantamura e sua nipote Maria Tra tta.
Colantonio Occhiostracciato così attaccava:
Ascoltate signore e signori
questa storia di un brutto destino
che gettò confusione e dolore
e due amanti alla morte mandò.
Mettiti in mente Federica che proprio quell’anno si scatenò nel
regno di Napoli una peste avicola che ammazzò non si sa quante
galline. Entravi nei gallinai e trovavi cadaveri, penne e piume
dappertutto e nidi sempre più vuoti, tanto che si temette potesse
trasmettersi agli uomini. Don Ferdinando Maria Cantarella, un
massaro della Daunia, se ne scappò sulle montagne di Deliceto dove
aveva una seconda casa di campagna e concepì, tra terrore, lamenti
e damigiane di vino che a suo dire tenevano lontana la peste, l’idea
che la glia Maria Tra tta dovesse diventare medichessa.
«Una medichessa?» disse la moglie, Maria Stella Plantamura,
dandosi di mani in faccia, «Nanduccio mio, ma è una pazzia pensare
una glia medichessa! È il vino, è tutto questo bere. Non vedete che
non vi fa tenere in piedi?»
L’idea le appariva insensata perché a quei tempi non era concesso
alle donne di essere iscritte all’università né di seguire corsi presso
qualunque medico e toccare e ragionare dei corpi spettava solo ai
maschi. In quanto al vino, non vedeva che contadini e carrettieri
cantavano tutta la notte nelle campagne sfatti di vino eppure
morivano come mosche?
Ma Nanduccio Cantarella era ssato, aveva una paura grande
quanto una montagna, una paura che lo aveva accompagnato no
dalla nascita e che si tramutò in terrore quando scoppiò la peste.
Bisogna dire, Federica mia, che questo Nanduccio era nato
settimino, la sua vita era stata sempre in bilico, muore e non muore
e aveva avuto spesso febbri da cavallo, ora di pancia, ora di gola e
ora di crescenza. Perciò stava sempre in mano di medico e sotto la
protezione di Nenella Paradiso, una magara che lo sfascinava e gli
cacciava il malocchio:
«Tre diavoli t’hanno pigliato
e tre santi t’hanno aiutato
non t’aiuto come a glio mio
ma come a glio di Maria».
Dopodiché Nanduccio si lavava la faccia nel bacile e Chiacone, il
glio di Nenella, lo andava a svuotare lontano da casa.
Primo di quattro gli, aveva ereditato la masseria Larotonda, in
agro di Lucera, con cento tomoli di terreni, per metà coltivati a
seminativi e per l’altra metà incolti; glieli amministrava il gualano
Vitonicola Colucci che era sempre sui campi a guidare il lavoro di
pastori, pastoricchi e braccianti che alloggiavano con le famiglie
nella masseria.
Colucci era una iena, stava sugli operai al lavoro, sui pastori alla
mungitura ed era sempre con l’archibugio pronto per scoraggiare
sbandati e ladroni che avevano rifugio sul Gargano e veramente
faceva gli interessi dei Cantarella.
L’arcangelo Gabriele che custodisce il brogliaccio dei devoti aveva
registrato per il giudizio nale a favore di Nanduccio Cantarella
queste notizie: «Si tiene da capo a letto un croci sso di olivo e un
reliquiario d’argento con dentro un osso della mano di sant’Oronzo e
una scheggia della croce di San Pietro». Ma aveva anche segnato tra
le cose negative «Tre cornicelli di corallo di varia misura sparsi
dentro le bo ette e nei materassi». C’era poi la presenza per casa di
Chiacone Paradiso, un gobbo senza mezza orecchia, la faccia
squadrata, ma che gli stava sempre a comandi. Per qualunque cosa
Nanduccio chiamava Chiacone e posava la mano sulla gobba o
cercava Nenella Paradiso per farsi sfascinare e liberare dal
malocchio. E quando si di use la peste delle galline fece sfascinare
prima la masseria e i dormitori, poi le stalle e il gallinaio e in ne
mandò a chiamare il vicario don Pierino Pistorio per la benedizione
della casa. Si manteneva insomma in una fede che era fatta di cielo
e di fango.
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