Quinto comandamento – Massimo Manfredi

SINTESI DEL LIBRO:
Fazenda Pires, Terra do Meio, Brasile, 15 ottobre 2003, ore 1.30
L’intera area era circondata da una recinzione metallica con filo
spinato pattugliata da un paio di guardie armate. Ognuno dei due
uomini percorreva una metà del perimetro di circa trecento metri, fino
a incontrare il compagno. Poi volgevano le spalle l’uno all’altro e
percorrevano a ritroso lo stesso itinerario fino a incontrarsi di nuovo
dalla parte opposta. L’uno e l’altro tenevano due rottweiler al
guinzaglio.
Padre Marco aveva calcolato sull’orologio, regalo di suo padre per
il giorno della cresima, il tempo che trascorreva dal momento in cui i
due guardiani si separavano a quello in cui si ritrovavano dalla parte
opposta del circuito e aveva preparato tutto l’occorrente per la sua
incursione. Dopo essersi cosparso con olio di palma per cancellare
ogni altro odore, si passò più volte davanti alla bocca e al naso una
benda di cotone inzuppato dello stesso olio per impedire l’inalazione
di vapori tossici, poi impugnò un paio di tronchesi e tagliò nella rete
metallica un varco largo e alto a sufficienza da permettergli di entrare
agevolmente. Alla cintura teneva una torcia e una bottiglia di plastica
rigida per raccogliere il campione che gli serviva.
Vedeva davanti a sé una sterminata distesa di fusti da trenta galloni
verniciati di nero, che riflettevano debolmente le luci dei fari
disseminati sul vasto cortile asfaltato. Sul fondo, verso nord, si
distingueva la sagoma di un piccolo Piper PA25.
Il vento.
L’aveva fatto osservare in ogni variazione dai suoi Xavantes, che lo
consideravano praticamente il loro capo e che si muovevano nella
foresta come pesci nell’acqua. Sapevano da che parte tirava e a che ora
si quietava.
Sulla base di quelle informazioni padre Marco si era appostato
sottovento in modo che i cani non percepissero il suo odore, pur
camuffato.
Al momento opportuno scivolò all’interno del recinto con la sua
pinza Leatherman, anch’essa un regalo, per il suo quinto anniversario
di messa, da parte dei suoi familiari. Si nascose in mezzo ai fusti di
lamiera pieni di micidiali veleni. Poi si alzò, incastrò le ganasce della
pinza nel tappo a vite e lo fece ruotare in senso antiorario. Infilò
all’interno una cannula da prelievo e rilasciò il liquido nella bottiglia,
poi riavvitò il tappo. Ma mentre eseguiva la manovra nell’angolo
meno illuminato del cortile, il tappo gli scivolò di lato e ricadde sulla
lamiera. Nel silenzio della notte quel suono metallico fu udito
nettamente dai guardiani che si portarono subito alla bocca i fischietti
per dare l’allarme. I cani si misero a latrare, ma non sapevano da che
parte volgersi.
Padre Marco tornò rapidamente verso il taglio nella recinzione, uscì
e si lanciò di corsa nel folto della foresta.
«Corri» diceva a se stesso. «Corri, corri, corri!» E volava nel
sottobosco, svegliando gli uccelli nei nidi ed eccitando le creature
della selva che si aggiravano sotto la vasta cupola verde in cerca di
preda. Di tanto in tanto il fuggiasco si volgeva indietro per capire cosa
stesse succedendo alle sue spalle. L’allarme aveva attivato le sirene e
acceso fasci di luci sulle torrette di sorveglianza. Lui cercava di
mantenersi sul sentiero senza accendere la torcia elettrica, per non
farsi scoprire.
Perché si era gettato in quell’avventura? Non avrebbe potuto
starsene tranquillo nella sua missione a formare i catechisti, ad
annunciare il Vangelo, a celebrare la messa e a chiacchierare di tanto
in tanto con lo sciamano? Perché? Perché?
Lo sapeva il perché e sapeva perché i cani lo inseguivano e si
avvicinavano sempre di più.
Ma come riuscivano a fiutare le sue impronte?
Il cuore gli scoppiava, sentiva le sanguisughe cadergli sul collo e
sulle braccia nude, sentiva lo sfrascare del sottobosco: giaguaro? E
quale serpente gli sarebbe piombato addosso da un albero per
prostrarlo a terra e avvolgerlo subito fra le sue spire?
Corri!
Doveva trovare un corso d’acqua per far perdere le sue tracce.
Alligatori? Anaconda? Orrore che lo attanagliava ma passo dopo
passo, respiro dopo respiro, si sentiva più lontano. La bottiglia avvolta
di stracci gli batteva sulla coscia. Sentiva un odore sempre più netto e
sempre più ripugnante. Sapeva che il prodotto era molto volatile e
insidiosissimo. Liberava molecole assassine che si annidavano nel
grasso sottocutaneo e da lì non era possibile snidarle. Pensò che forse,
anzi certamente, quel liquido non era diluito, pronto per l’irrorazione.
Era concentrato. Se c’era l’odore, il liquido fuoriusciva, anche se in
minime parti, trasudava, sì. L’avrebbe ucciso? Sarebbe stato
considerato un martire della conservazione dell’ambiente?
Trovò un piccolo rio che correva veloce ma poco profondo. Quello
che gli ci voleva. I cani erano vicini. Si fermò qualche istante per
guardare indietro: le guardie erano cinque o sei. Ogni uomo portava
un elmetto con torcia elettrica incorporata ed era armato di fucile
d’assalto. Doveva seminare i cani se voleva sopravvivere, o sarebbe
stato ucciso entro pochi minuti.
Si gettò nell’acqua e riprese subito a correre più veloce che poteva.
Dopo una mezz’ora udì i latrati dei cani affievolirsi lontano: avevano
perso la traccia e cercavano avanti e indietro per ritrovarla.
Ce l’aveva fatta ma era fradicio, ogni passo sollevava spruzzi. I
crampi della fame gli torcevano lo stomaco: era sfinito, il respiro si
faceva sempre più breve.
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