Ricordami nell’acqua – Eloisa Donadelli

SINTESI DEL LIBRO:
ERA il 28 o obre 2018 e le foglie avevano avuto un lungo tempo
per staccarsi, svolazzare un poco e posarsi sull’asfalto, per raccontare
a tu i la fiaba della loro estate finita. I bambini del condominio di
fronte avevano appiccicato sagome di scheletri mingherlini sui vetri
delle finestre. I negozi erano stati addobbati secondo l’imperante
stile americano. Streghe, ragnatele, fantasmini e pipistrelli traballanti
riempivano gli sguardi degli avventori. Nei bar venivano regalati
cioccolatini a forma di zucca. Il vento intanto scuoteva tu i,
incurante delle festività, sballo ando il grigiore dello smog da una
parte all’altra della ci à.
Rocco tornò dal lavoro, le mani sporche di terra e in testa diversi
proge i per modificare e integrare con l’ambiente circostante il
giardino di una tenuta privata. Appese la giacca a un vecchio
a accapanni in legno su cui poggiava un Oxypetalum coeruleum. Poi
si diresse in cucina. Prese dell’acqua fresca dal rubine o e riempì un
bicchiere, osservando senza pensieri la trasparenza del liquido. Ne
bevve uno, poi due, senza quasi respirare, infine si accorse del foglio
in formato A4, scri o con un pennarello dalla punta grossa.
La le era era stata accartocciata in forma conica per comporre una
sorta di installazione pop. Sembrava un’infantile costruzione di
cartapesta con cui un bimbo aveva cercato, con scarsa manualità, di
costruire una montagna. Intorno al cono c’erano centinaia di
microscopici frammenti di carta velina bianca. I pezze ini informi
erano sparpagliati sulla superficie del tavolo, sino a toccare un
tovagliolo aperto, color verde pisello, dalla forma arrotondata. Sopra
erano disegnate, con tra o bambinesco, miriadi di fiorellini in forme
dissimili. Vicino al bordo del tavolo era posata una tazza piena di
la e. Sul bordo di porcellana, a accata con del biadesivo, penzolava
una figura stilizzata, femminile, in bilico, pronta a cadere nel liquido
chiaro. Pareva una statua di Camille Claudel, una lunga ombra di
donna pronta a ge arsi via.
Rocco mandò a quel paese tu i i fiorellini e le composizioni
botaniche che aveva in testa. Ebbe il tempo di rabbuiarsi mentre si
lavava le mani con il sapone di Aleppo e prese a osservare, sul
davanzale di marmo, le sue adorate piantine grasse. Non avevano
bisogno di molta acqua, eppure le lasciava in bagno. Come per
proteggerle da ogni evenienza, anche la più assurda.
«Voi avete bisogno di poco!» disse ai piccoli vase i allineati con
ordine, da cui spuntavano minuscole creature spinose che lo
osservavano con affe o.
La decisione di Neve non lo stupì. Nemmeno la strana
installazione sul tavolo. Se lo aspe ava da lei. Era una persona
incapace di reagire alle avversità con lucidità e buonsenso. Era una
che si ge ava negli abissi e sapeva riemergere. Il problema erano le
persone, le relazioni, i sentimenti che lasciava galleggiare in
superficie. Lui l’aveva imparato conoscendola a fondo, tra le ombre
che una coppia deve a raversare giorno dopo giorno.
Quando si presentava un problema, lei reagiva con una forza
violenta e spietata che lo lasciava senza energia. Un tornado
silenzioso che s’infiltrava nelle ossa. Ormai la conosceva bene. Ne
rimaneva sopraffa o, ma poi lei si acquietava, fedele ai suoi credo.
Per Rocco, stare insieme a qualcuno significava coltivarsi e
ammorbidirsi, inclinare rami e sentimenti verso l’altro, colorare le
ombre sfuocate, arricchire con impronte siderali due anime che
p
provenivano da universi distanti. Facile per lui, che era un
contemplativo, uno lento nelle reazioni, un animale da tana e da
letargo, una pianta grassa che non necessitava di molto, ma sapeva
sopravvivere.
La tazza a pois rosa stava sul bordo del tavolo in vetro che Neve
aveva scelto un se embre di cinque anni prima. All’improvviso.
Durante il periodo in cui avevano deciso di diventare genitori.
«Rocco, non è meraviglioso mangiare sul vuoto? È dal vuoto che
nasce la vita», gli aveva de o, osservando il mobile cristallino dentro
una vetrina del quartiere dove vivevano a Milano. Poi lo aveva
f
issato con occhi che luccicavano, si era accarezzata l’abitino fresco e
aveva riso. Lui le aveva fa o notare la mancanza di praticità e lei era
tornata a insistere sull’inconsistenza dei piani. Rocco voleva
aggiungere che la vita non nasce dal vuoto, c’è sempre un seme di
partenza, ma aveva lasciato perdere.
«La prima volta che andiamo a Camogli, passiamo in quel
negozie o lungo il molo, compriamo quelle ceramiche grigie con le
sfumature azzurro e rosa pastello», aveva aggiunto entusiasta. «Le
usiamo per mangiare, le appoggiamo sul vetro e ci sembrerà di
f
lu uare sul vuoto. Un vuoto che può nutrirci.»
Quelle parole a lui non erano piaciute. Il vuoto non può nutrire.
Se ti nutri di vuoto, i sentimenti non a ecchiscono. Flu uano e si
disperdono.
«Ma i vuoti non riempiono!» aveva risposto perplesso.
«Uhm, hai ragione, forse intendevo un vuoto che noi colmeremo.»
Alla fine Rocco aveva ceduto a quel capriccio, dopotu o lei ne
aveva pochi.
Non era una che si riempisse di abiti all’ultima moda, di creme,
trucchi, smalti e aggeggi per acconciarsi i capelli. Era una piu osto
spartana. Aveva un suo stile personale, le piacevano il lino, gli abiti
lunghi, il profumo di Monoi e le scarpe ada e a camminare su
terreni accidentati.
Fecero posizionare il tavolo nella zona giorno. Quella con la
portafinestra dai serramenti color burro, che dava a est e al ma ino
illuminava la casa, tanto che a primavera, dopo il cambio dell’ora, si
beavano a ricevere raggi lucenti sul viso e si sentivano felici. Venne a
gg
portarlo un omino sudato. Quando l’ebbe sistemato, lei insiste e per
offrirgli un caffè. Voleva inaugurarlo subito. Lei invece si versò un
bicchiere d’acqua. Un raggio di sole colpì il ripiano e Neve lo seguì
con un dito, poi distra amente rovesciò l’acqua. Le parve di vedere
un lago ghiacciato. Di sentire di nuovo quel silenzio irreale che le
portavano i ricordi.
Ora Rocco era rientrato in una casa muta, fredda nonostante i
caloriferi accesi. Provò a chiamarla, con magre speranze, il cellulare
risultava spento. Un muro silenzioso tra loro due. Si innervosì.
Strinse i pugni, si guardò intorno in maniera primitiva e lanciò la
tazza sul piano trasparente, sperando di scalfire quel tavolo
luminoso, che invece resisteva agli urti della rabbia.
Perché, nell’infantile rappresentazione sul tavolo, lei era la figura
che si ge ava nel bianco la eo, lui un prato che poteva ancora fiorire.
Rocco sapeva che la festa dei morti mandava in crisi Neve, che i
suoi fantasmi riaffioravano prepotentemente, come i cadaveri in
mare, e forse quella volta erano più vicini del solito.
La no e precedente, entrambi non avevano chiuso occhio. Lui
aveva guardato la fine di un film, giocherellando con il telecomando,
lei aveva iniziato a leggere due libri che non l’avevano convinta. Si
era lamentata: «Devo passare dal libraio. Ho bisogno di qualcosa di
più forte, forse un thriller, d’inverno li preferisco alle saghe e ai
romanzi».
Poi, senza comunicare tra loro, come due isole distanti, avevano
cercato di prendere sonno, avvolti da un bozzolo buio, tessuto dai
pensieri. Lui girato verso il muro, solido, spinoso come le sue
piantine grasse allineate sul bordo della finestrella del bagno. Lei
dall’altra parte, liquida osservatrice di ombre che si proie avano
verso le tende che oscuravano i vetri del balcone. Neve sapeva
quanto si amassero. Lei non era come sua madre, con un cuore
sepolto in un lontano giardino d’infanzia, che trascinava i vivi tra le
ombre dei morti. Lei negli abissi nuotava sola, perché aveva la
capacità di riemergere, come i cetacei. E ora temeva che tra lei e
Rocco il rapporto si fosse trasformato in un connubio fraterno,
amichevole. Non c’era più a razione, mancava quella speranza di
ritrovare la scintilla iniziale che incendiava lo stomaco, stropicciava
p
le membra e avvolgeva in una nuvola rossa, viva, che ti faceva
sentire carne e sangue, un organismo impazzito di felicità, dalla
punta dei piedi alla rosa dei capelli. Lei l’aveva capito che quella
leggerezza era la conseguenza naturale della sua mancanza. Una
mancanza di risorse più profonda e infima dell’autunno, perché non
c’era possibilità di innaffiarla. Lei era uno di quei terreni impossibili
in cui nessun seme, neanche quello divino, avrebbe potuto
a ecchire.
Proprio lei che amava l’acqua, e lui che amava le piante. No, non
voleva fermarsi per sempre in quella specie di pozzanghera
travestita da perbenismo. Era giusto dare a Rocco la possibilità di
trovare una donna che potesse dargli un figlio. Era giusto liberarlo
da quella tristezza lunare che si portava nel grembo.
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