Questa non è una canzone d’amore – Alessandro Robecchi

SINTESI DEL LIBRO:
Marino Righi è seduto su una
poltrona di velluto rosso. Poltrona
incongrua, un oggetto che pare fuori
posto in una stanza elegante alla
maniera del design nordico, legni
chiari, toni neutri, tende ecru.
Persino i quadri alle pareti hanno
colori tenui, niente di sparato, niente
che risalti. Ton sur ton, ecco, quella
roba lì.
La poltrona, invece, rosso
vermiglio.
Scovate l’intruso.
Marino Righi si è seduto lì senza
pensarci – a cosa poteva pensare?
quando l’uomo è entrato in casa sua
e gli ha detto:
«Mettiamoci comodi, dobbiamo
parlare».
Perché l’ha fatto entrare? Ora ci
pensa e non sa rispondersi. Ma sì
che lo sa.
Perché si sente in colpa, perché sa
di dovergli qualcosa, anche se le
spiegazioni
sono
state
già
consumate, le scuse già trovate, gli
alibi spesi, le discussioni esaurite.
Però ora è tutto diverso.
Perché quello, appena entrato, ha
messo una mano in tasca, e poi l’ha
tolta subito. E nella mano aveva una
pistoletta piccola, cromata, puntata
su di lui. Marino Righi, più
perplesso
che
impaurito,
è
indietreggiato fino al salone, ha
preso posto sulla sua poltrona, un
gesto naturale. L’altro gli si è messo
davanti, seduto in pizzo su un
divano color crema, un po’ spostato
sulla sinistra, perché in realtà di
fronte alla poltrona è piazzato un
televisore al plasma di molti pollici,
acceso senza audio, una specie di
cinema, da chiedersi quando passa
quello dei pop-corn.
Un tipo tracagnotto, non proprio
grasso, ma più basso di quel che si
dovrebbe essere, per i canoni estetici
correnti. Un cappello troppo largo
per lui che gli casca sugli occhi, un
naso importante, e una bocca che
sembra grassa anche lei. Non un bel
tipo, eppure, pur così tozzo, con una
sua grazia. Un giaccone scuro
ingombrante lo rende ancora più
solido e largo. La pistola nella mano
destra che non trema neanche un
po’.
«Dobbiamo parlare», ripete.
Ma poi, però, non parla per niente.
Allunga appena il braccio destro
finché la canna della pistola sta a
trenta centimetri dalla fronte di
Marino Righi. E schiaccia il
grilletto.
Boato. Poi silenzio.
Ora le macchie che stonano nel
tripudio di bianco e beige e
sfumature pastello sono due: la
poltrona rossa e il cerchietto che
Marino Righi ha in mezzo alla
fronte, da cui cola lentamente un
minuscolo rivolo di sangue, rosso
anche lui.
Un proiettile calibro 22 non è
molto veloce, né devastante, ma
questo non aiuta, anzi. Quando entra
ha già fatto il grosso del lavoro. E se
non trova una parte molle da cui
uscire, rimbalza qualche decina di
volte tra le ossa del cranio come una
pallina da flipper tra i respingenti.
Gli special, le lucine e tutto il
resto, ma non si vince niente.
L’ometto tarchiato raccoglie il
bossolo da terra e lo avvolge in un
fazzoletto bianco, che mette nella
tasca dei pantaloni. Non ha fretta, fa
tutto con grande calma, metodico e
preciso.
Indossa un paio di guanti. Lattice,
o cotone bianco, aderenti, fatica a
infilarli.
Sparisce nelle altre stanze, trova
lo studio, si siede alla scrivania. Non
sa cosa cercare, e infatti non lo
cerca. Si limita a curiosare, senza
fare disordine.
Apre cassetti, li richiude. Apre
una cartelletta azzurra, legge un
foglio, distrattamente. Poi si fa
subito più attento, e per la prima
volta da quando ha suonato il
campanello si acciglia, strizza gli
occhi.
Rilegge.
Legge ancora una volta.
Piega il foglio in quattro, con
precisione, o lo mette nella tasca
interna della giacca.
Milano non è una città da
guardare ad altezza d’occhi. Per
capirla davvero bisogna guardare in
basso, dove i seminterrati si
riempiono di traffici, magazzini,
laboratori, cucitori di borse, lavatori
di
tappeti,
impilatori
di
dati
informatici, artigiani rifugiati nelle
cantine dei palazzi perché il negozio
costava troppo, o il capannone se l’è
preso la banca, o i dipendenti sono
solo due, da venti che erano,
signora, sapesse.
Oppure bisogna guardare in alto,
dove i palazzi del primo Novecento
sono cresciuti come per levitazione,
con sopralzi, propaggini verticali.
Soffitte sopra il quarto piano hanno
fatto da fondamenta al quinto, al
sesto, a volte all’attico. Protuberanze
quasi
sempre
assurde,
architettonicamente ripugnanti, che
sembrano incollate senza stile, senza
eleganza. Alcune meglio di altre.
Certe con il terrazzo e la vista niente
male, come questa.
Qui i Navigli, là il resto del
mondo.
L’ometto indugia un attimo vicino
alla finestra. Nuvole.
Poi torna in salotto.
Marino Righi sembra guardarlo
indifferente.
Indifferente è il minimo.
Una goccia rossa ha raggiunto il
collo della camicia, passando dal
lato sinistro del naso, aggirando le
labbra, calandosi piano dal mento.
L’ometto si mette al lavoro.
Metodico, tranquillo.
Dieci minuti.
Poi riprende i suoi strumenti.
Poi spegne le luci.
Poi esce tirandosi dietro la porta,
chiudendo dentro con lo scatto della
serratura la tivù accesa senza
volume, l’attico che guarda i Navigli
e una vaschetta di cubetti di ghiaccio
presa dal freezer e lasciata mezza
vuota sul tavolo della cucina.
E Marino Righi seduto sulla sua
poltrona.
In ascensore toglie i guanti,
schiaccia il pulsante del piano terra
usando una nocca del dito indice,
raggiunge il portone ed esce sulla
strada.
Una macchina si mette in moto.
Una Peugeot né nuova né vecchia,
grigio cenere.
L’ometto sale al posto del
passeggero.
«Fatto?».
«Fatto».
«Rogne?».
«Niente».
«Trovato qualcosa?».
«Forse. Vedremo».
Poi basta, e nessuno parla più.
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