Quattro amiche per sempre – Ann Brashares

SINTESI DEL LIBRO:
Carmen ricordava di essere andata da Tibby una volta, quando
aveva tredici armi, con un numero di CosmoGirl in una mano e una
matita per gli occhi nell’altra, dichiarando che non si sarebbe mai
stancata di farsi truccare.
Be’, aveva finito per stancarsene. Seduta sulla poltrona del
trucco, ai primi di ottobre, in una roulotte parcheggiata all’angolo di
Bleeker Street e Bowery nell’East Village di Manhattan, mentre una
ragazza di nome Rita le soffiava i capelli con il phon per la
milionesima volta, e una ragazza di nome Genevieve le ritoccava il
fondotinta per la diecimilionesima volta, Carmen sapeva che quello
era soltanto un metro in più sul tapis roulant dell’edonismo. In fin dei
conti ci si può stancare di tutto.
Ed era vero. Aveva letto un articolo in proposito sulla rivista Time.
"Può capitare perfino di sentirsi nauseati dal cioccolato, sai" aveva
detto a sua madre al telefono la sera prima.
Sua madre aveva emesso un mugolio dubbioso.
"Così ho letto, per lo meno."
Fare l’attrice in tivù, perfino in telefilm moderata-mente buoni e
piuttosto seguiti, comportava tante ore di trucco per pochi minuti di
recitazione. E finito il trucco - per il momento, ovvio, perché al trucco
non c’era mai fine - si stava parecchio tempo seduti a bere latte
macchiato. Ecco lo sporco segreto dell’industria dello spettacolo: la
Noia.
Carmen non era la protagonista del telefilm, certo che no. Faceva
la parte dell’investigatrice speciale Lara Brennan in Criminal Court.
Compariva per pochi istanti sulla scena del crimine in quasi tutti gli
episodi e certe volte doveva anche presentarsi come testimone in
tribunale.
«Su gli occhi» disse Genevieve, avvicinando il pettine del
mascara. Non capitava spesso che Carmen avesse bisogno di
indicazioni. Lei sapeva esattamente da che parte girare gli occhi in
ogni tappa dell’applicazione. Se non fosse stata attenta, Carmen
temeva di finire come una delle tante bambole che aveva sfigurato
da bambina, durante i suoi ripetuti e brutali tentativi di migliorarne
l’aspetto.
Carmen si studiò i capelli. Non aveva mai pensato che si sarebbe
stancata anche di quelli. Guardò in tralice i riflessi. Erano piuttosto
vistosi, un tantino troppo chiari questa volta. Li avrebbe preferiti un
po’ più scuri, ma il direttore la voleva chiara. Probabilmente perché il
suo personaggio di cognome si chiamava Brennan e non Garcia.
Carmen si rigirò il telefono in mano e pensò chi poteva chiamare.
Aveva già parlato con Lena una volta e due volte con la sua agente.
Le passò per la mente un’immagine fugace del viso di Tibby, più per
lealtà che per il desiderio di parlarle davvero. Da quando Tibby si era
trasferita in Australia con Brian circa due anni prima, Carmen aveva
quasi perso la speranza di parlarle in tempo reale. Il trasferimento di
Tibby era stato affrettato, disorganizzato, e soprattutto… lontano. Le
sedici ore di differenza erano un impiccio. Nei primi tempi Tibby si
spostava in continuazione e quando si era decisa a prendere un
numero fisso, Carmen aveva ormai rinunciato da un pezzo all’idea di
parlarle al telefono. Le chiamate internazionali tra i loro due cellulari
erano intralciate da stupide complicazioni, soprattutto da parte di
Tibby. Un paio di settimane. Un mese. In primavera. Questi erano i
tempi che Carmen aveva immaginato, per riprendere a sentirsi
regolarmente. Più di una volta Carmen aveva pensato di fare tin
salto laggiù. In giugno aveva individuato una data sul calendario, e
Bee e Lena avevano subito aderito alla proposta. Quando l’aveva
scritto a Tibby via mail, la risposta era giunta più rapida del solito.
«Adesso non è un buon momento.»
Carmen se l’era presa. Ho fatto qualcosa?, aveva chiesto nel
messaggio seguente.
Oh, Carma, no. Non hai fatto niente di sbagliato. Niente. Solo che
sono piena di impegni e non mi sono ancora sistemata. Ma sarà
presto. Ho voglia di vedere te e Len e Bee più di chiunque altro.
E poi c’era Bee. Carmen non l’aveva più vista da quando Bridget
era passata da New York durante le vacanze di Natale, ma c’erano
lunghi periodi in cui si sentivano ogni giorno - almeno finché Bee non
perdeva il telefono o trascurava di pagare le bollette. Bee era la
miglior distrazione possibile da un’ora di seduta di trucco, ma
Carmen non sapeva se chiamarla in quel momento. Il loro rapporto
si era fatto imbarazzante durante le ultime settimane, da quando
Bee, con efficacia, aveva dato a Jones dello stronzo.
Be’, per la verità Bee non era saltata su dal nulla con un: «Il tuo
fidanzato è uno stronzo.» Di fatto, era stata Carmen a chiamarlo
stronzo e Bee aveva concordato in pieno. Ma a Carmen era
concesso di dire che Jones era uno stronzo visto che era lei che lo
avrebbe sposato.
Il telefono squillò, risparmiandole la fatica di chiamare chiunque,
e Carmen lo aprì con uno scatto. Aveva gli auricolari già inseriti nelle
orecchie. Lei era una delle poche persone di sua conoscenza che
rispondeva nello stesso momento in cui controllava il nome di chi
chiamava, e non dopo.
«Ciao, tesoro.»
«Ciao, Jones.»
«Ancora al trucco?»
«Già.» Jones era dell’ambiente, per cui sapeva come andavano
le cose. Oltre al fatto che l’aveva già chiamata mezz’ora prima.
«Fino a che ora girate stasera?»
«Più o meno alle sette, così ha detto Steven.»
«Se riesci, taglia la corda un po’ presto e vieni diretta al
Mandarin, d’accordo? C’è il pre-party della grande serata di
beneficenza per Haiti. È importante che tu ti faccia almeno vedere.»
«Non farà differenza per Haiti se non arrivo in tempo al pre
party.» Avevano tre eventi di quel tipo in agenda per quella
settimana.
«Non è per Haiti» disse Jones come se lei fosse ottusa. «È per
gli Shaw. Ci hanno invitati e non voglio offenderli. Probabilmente lei
sarà a capo della produzione l’anno prossimo. Per le otto saremo
fuori di lì. Nessuno ci rimarrà tutta la serata.»
«Oh. Certo.» Per quanto avesse imparato a essere cinica,
Carmen non si ricordava mai di esserlo abbastanza. Perché mai
aveva pensato che la festa di beneficenza per Haiti fosse per Haiti e
non per gli Shaw? Perché mai doveva pensare che la serata di gala
fosse per la festa in sé e non per il party che la precedeva? Se non
fosse stato per Jones, avrebbe potuto essere una di quegli idioti che
credevano fosse per Haiti e stavano lì fino alla fine.
Trovarsi sulla cresta dell’onda era terribilmente insidioso. Carmen
aveva raggiunto quello stato con una certa spacconeria, ma trovava
difficile mantenerlo. Senza Jones, sarebbe potuta scivolare giù
dall’onda in un attimo, ricadere nel suo naturale entusiasmo, e non
essere mai più chiamata per una parte per il resto della sua vita.
"È un gioco e tu ci stai" le diceva spesso lui, quando si sentiva a
terra o disgustata. "Se vuoi avere successo in questo campo, devi
fare così. Altrimenti sceglitene un altro." Lui aveva trentanove anni,
lei ventinove. Era in quel mondo da sedici anni, come le ricordava
sempre. Ma in realtà non c’era alcun bisogno che lui glielo ripetesse.
Che le piacesse o meno, lei sapeva giocare benissimo quel gioco
quando voleva.
«Cercherò di essere lì prima delle sette» disse.
Carmen si sentì vagamente insoddisfatta quando terminò la
conversazione. Non che a Jones non importasse della beneficenza.
Gli importava, eccome. Ogni mese versava il cinque per cento dei
suoi guadagni a un’organizzazione caritatevole. Non si poteva certo
criticarlo su quel fronte.
«Era di nuovo il tuo ragazzo?» chiese Rita.
Carmen annuì, distratta. Certe volte era difficile capire per che
cosa criticarlo.
«È produttore esecutivo alla ABC, giusto?»
Annuì di nuovo. Nel settore, erano sempre tutti alla ricerca di
nuovi contatti.
«Fortunata» disse Rita.
«Sì» concordò lei. E non solo perché lui era il suo ragazzo, ma
perché era il suo fidanzato. Se era fortunata, era strafortunata. E se
non era fortunata? Che cos’era allora?
Lena appoggiò i piedi sulla scrivania. Lo smalto rosa che sua
sorella Effie le aveva applicato sulle unghie durante l’ultima visita
aveva cominciato a scheggiarsi da tempo. Lena tenne il blocco da
disegno in equilibrio sulle ginocchia e cominciò a sfogliarlo.
Quel giorno si era ripromessa di dare una ripulita alla casa.
L’impegno era quello di riempire un paio di sacchetti della
spazzatura -- il suo appartamento era troppo piccolo per conservare
cose superflue - ma non era ancora stata capace di buttare
nemmeno uno dei suoi ventisette blocchi. Questo, per esempio, era
vecchio. Sulla prima pagina c’era uno schizzo a matita di
Mimi, il porcellino d’india di Tibby, grasso e addormentato sul suo
tappeto di trucioli. Per quanto lontano nel tempo, Lena aveva il vivido
ricordo dell’allegro caos di linee con cui aveva raffigurato quei
trucioli. C’era un disegno di Bridget all’età di sedici anni, le ginocchia
raccolte sul divano, che guardava la tivù con un sombrero a punta
sulla testa. Doveva essere un paio di settimane dopo il suo ritorno
dal campo estivo di calcio in Messico. Era uno schizzo abbozzato, e
Lena sorrise guardando il tratteggio che aveva usato per riprodurre
l’abbronzatura sulle guance di Bee. Di quando in quando
comparivano gli inevitabili disegni dei suoi stessi piedi. C’era uno
schizzo lasciato a metà di Effie quindicenne nella versione scontrosa
del mattino, troppo scontrosa per lasciare che Lena finisse il
disegno. C’erano tre studi della mano di Carmen quando portava
ancora quell’anello che cambia colore con l’umore e si mangiava le
unghie. Come si faceva a buttarlo?
Stabilì che con i blocchi più recenti sarebbe stato più semplice.
Erano per lo più disegni di piedi e terminavano all’incirca due anni
prima, quando Lena a poco a poco aveva smesso di disegnare.
Nell’ultimo paio di anni si era dedicata con tutte le energie ai dipinti,
che erano composti, formali, e in gran parte astratti. Non si poteva
certo pensare di continuare con quegli schizzi pasticciati di amici,
famiglia e piedi, e fame un lavoro.
Perché tanti disegni dei propri piedi? Non erano la parte migliore
di lei, anzi, con ogni probabilità erano la peggiore. Aveva il
quarantuno, quarantadue con certi modelli di scarpe, sudavano
facilmente quand’era eccitata o nervosa. Aveva le dita piuttosto
lunghe, soprattutto il secondo e il terzo dito: "quello che ha comprato
il pane e quello che l’ha portato a casa" come diceva la filastrocca
che la madre di Tibby recitava loro da bambine. L’unico pregio che
avevano i suoi piedi in quanto soggetti era il fatto di essere attaccati
all’estremità delle gambe a una distanza sufficiente da far sì che lei
potesse guardarli da diverse angolature. Erano vivi, se ne stavano
tranquilli quando glielo chiedeva, e non si facevano pagare per fare
da modelli. Immaginò che se in un futuro lontano qualcuno si fosse
dato la pena di riguardare i suoi disegni, avrebbe detto: "Questa
ragazza aveva una vera ossessione per i suoi piedi." Forse avrebbe
buttato quegli ultimi due blocchi.
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