Processo a Socrate – Mauro Bonazzi

SINTESI DEL LIBRO:
Un processo celebre e un altro processo celebre
Se trasgrediscono le leggi, occorre punirli.
Anonimo, Contro Andocide, 44
Lo storico è nella stessa posizione del giudice.
M. Hansen, The Trial of Sokrates, p. 4
Il 399 a.C. fu l’anno di un celebre processo ad Atene, una città che non
riusciva a chiudere i conti con il proprio passato. La parola d’ordine era di
non rievocare i mali trascorsi: me mnesikakein, si diceva. Per chi avesse
osato farlo i rischi non mancavano. Ci aveva provato, ad esempio, un
cittadino destinato a rimanere senza nome, di cui parla Aristotele: fu
ucciso senza neppure essere giudicato. Nessuno, chiosa il filosofo, si
azzardò più1. Ma in realtà, la situazione concreta era ben diversa da quello
che suggerisce l’aneddoto: troppe cose erano accadute perché si potesse
davvero dimenticare, e ogni occasione era buona per ritornare su vicende
vecchie di anni, ma che ancora bruciavano. Senza mai nominare
esplicitamente i fatti del passato: bisognava stare attenti a non violare il
giuramento. Del resto, non ce n’era bisogno. La guerra, i tradimenti, il
conflitto civile, le liste di proscrizione: tutti ricordavano tutto2.
Così si spiega, quell’anno, il processo di Andocide, figlio di Leogora
(440-390 a.C. circa). Un episodio apparentemente marginale diventava
l’occasione per tornare su uno dei momenti chiave della storia recente di
Atene, forse quello decisivo, di sicuro il più discusso. Pochi mesi prima
Andocide aveva preso parte ai Misteri, i riti sacri che si tenevano ad
Eleusi; si vociferava anche che avesse deposto un ramo da supplice
nell’Eleusinion di Atene, un atto proibito durante la celebrazione dei
Misteri. Gesti banali, in fondo, che ad alcuni apparvero invece una
provocazione intollerabile. Perché Andocide non era una persona
qualunque. Rampollo di una delle più prestigiose e ricche casate ateniesi,
membro dell’eteria di Eufileto, era rientrato da poco in città, grazie alla
recente amnistia del 403, dopo un lungo esilio3. Durante il quale, a
differenza di tanti altri, aveva dato prova di un notevole spirito di
intraprendenza: aveva fatto fortuna e ora ritornava «nell’indiscriminato
grigiore della democrazia restaurata e da tutti accettata, perché ancorata al
singolare principio che a nessuno si dovesse chiedere conto di nulla»,
pronto a godersi l’onore ritrovato e le ricchezze guadagnate4. La
partecipazione alla cerimonia dei Misteri voleva significare questo
desiderio di normalità da parte di un reduce che era riuscito a superare in
modo brillante anni turbolenti. La reazione dei molti che avevano ancora
conti aperti con lui fu immediata. Fu rispolverato un vecchio decreto,
quasi dimenticato, e fu processato per empietà5.
Il decreto di Isotimide era stato approvato nel 415 (probabilmente per
colpire proprio Andocide). Proibiva a chi si fosse macchiato di atti
sacrileghi l’ingresso nei templi o la partecipazione ai riti religiosi della
città. È vero che nel 403 a.C. era stata votata un’amnistia. Ma non era
chiaro se essa riguardasse anche crimini tanto gravi, e su questo avevano
giocato gli accusatori6. Perché ad essere fuori di dubbio era che Andocide,
anni addietro, si era macchiato di quei crimini7. Quindici anni prima era
stato uno dei protagonisti della vicenda della mutilazione delle Erme e
della profanazione dei Misteri. Vecchie storie, appunto, che nessuno
voleva o riusciva a dimenticare.
La mattina del 7 giugno (Targhelion 29, nel calendario attico) 4158 gli
Ateniesi, risvegliandosi, si erano trovati davanti ad uno spettacolo
inquietante. Lungo le strade della città erano poste delle colonne a base
quadrangolare con la testa e il fallo del dio Hermes. Durante la notte il
viso di queste statue era stato sfregiato e gli organi genitali mutilati. Si
pensò inizialmente alla bravata di qualche giovane scapestrato: ad Atene
abbondavano. Ma con il passare del tempo si fece strada in modo sempre
più pressante il sospetto che questo atto di vandalismo fosse in realtà il
preludio a qualche cosa di più grande: solo un gruppo organizzato poteva
aver operato su un’area così vasta. Un colpo di Stato contro la
democrazia? Intanto iniziò anche a circolare la voce che in quello stesso
periodo alcune persone – tutte riconducibili ai gruppi oligarchici, guarda
caso – avessero parodiato i Misteri di Eleusi, uno dei momenti fondanti
della vita religiosa della città9.
A rendere preoccupanti questi episodi era il quadro politico generale. In
quelle stesse settimane del 415 ad Atene fervevano i preparativi per una
nuova e ambiziosa spedizione, approfittando di un momento di tregua
nelle ostilità con Sparta. Da poco era stato deciso di aprire un nuovo
fronte, muovendo guerra contro Siracusa. Chi più di tutti si era speso per
questa nuova iniziativa era stato il personaggio più in vista di Atene,
Alcibiade, l’erede della linea politica periclea, subito eletto tra i generali
che avrebbero guidato l’esercito in Sicilia. Voci anonime, fatte circolare ad
arte, iniziarono a segnalarlo tra i protagonisti della “bravata”, gettandogli
addosso un’ombra di discredito, come se anche lui fosse implicato nelle
trame contro la democrazia. «Andavano gridando – scrive Tucidide – che
era in vista dell’abbattimento della democrazia che erano state fatte le
cerimonie misteriche e la mutilazione delle Erme, e che non uno solo di
questi misfatti era stato compiuto senza la partecipazione di Alcibiade»10.
A nulla valsero le sue proteste di innocenza, e nessun seguito ebbe la sua
richiesta di essere processato subito, prima della partenza della flotta, in
modo da poter sgomberare immediatamente il campo da sospetti tanto
pericolosi.
Il seguito è cosa nota. Poco dopo il suo arrivo in Sicilia Alcibiade scelse
la fuga e il tradimento, mentre si avvicinava la nave di Stato “Salamina”
che avrebbe dovuto riportarlo ad Atene, per processarlo in un clima ben
diverso rispetto a quello dei giorni festosi in cui la flotta era salpata dal
Pireo. Senza di lui, la spedizione si risolse in una catastrofe assoluta, da
cui Atene non sarebbe più riuscita a riprendersi completamente. La
sconfitta contro Sparta nella guerra cominciata nel 431 sarebbe arrivata
solo nel 404, ma era iniziata in questo momento. L’affare delle Erme e la
profanazione dei Misteri avevano contribuito in modo sostanziale a
indirizzare il corso degli eventi nel modo peggiore per Atene.
Andocide fu uno dei protagonisti indiscussi di quella vicenda11: subito
individuato come uno dei partecipanti, o comunque come uno che
sapeva molte cose, fu imprigionato: e se si salvò dal carcere fu grazie a una
serie di delazioni mirate, che condussero ad una nutrita serie di
condanne. Pur reo confesso (non senza ambiguità e distinguo,
comunque), ebbe così salva la vita. Ma, circondato da un’ostilità crescente
(e colpito dal già menzionato decreto di Isotimide che di fatto lo
escludeva dalla vita della città), finì per scegliere l’esilio. Da cui, come
detto, rientrò definitivamente nel 403, dopo la fine della guerra e dopo
l’abbattimento del famigerato regime filo-spartano dei Trenta Tiranni,
grazie all’amnistia, mentre era in corso una revisione di tutto il corpo
delle leggi attiche, con gravi rallentamenti nel lavoro ordinario dei
tribunali12. Tra il 401 e il 400 questa opera di revisione terminò e la
macchina dei processi tornò a funzionare a pieno regime. E alla prima
occasione anche il ricco aristocratico finì nell’ingranaggio.
Il processo, però, si concluse con l’assoluzione. Ancora una volta
Andocide era riuscito a spuntarla.
Poco dopo, sempre nel 399, fu celebrato un altro processo, che
presentava molti punti di convergenza con quello di Andocide. Anche in
questo caso si doveva deliberare su un caso di empietà13. E l’accusato era
noto, tra le altre cose, proprio per i suoi rapporti speciali con Alcibiade e
numerosi altri aristocratici – gli stessi ambienti e in molti casi le stesse
persone coinvolte nelle vicende del 415 e poi nei colpi di Stato del 411 e
404, quando gli oligarchi avevano rovesciato il regime democratico14.
Contesto e accuse erano insomma simili a quelle di Andocide: di nuovo,
senza che lo si potesse dire espressamente, il passato faceva sentire il suo
peso.
L’imputato era Socrate, figlio di Sofronisco, filosofo.
Di Andocide abbiamo il suo discorso di difesa (e forse anche quello di
accusa)15. Di Socrate si conservano ben due discorsi di difesa, l’Apologia di
Platone e quella di Senofonte, che però presentano non poche differenze,
con il risultato che nulla di certo può essere stabilito su quello che fu
effettivamente detto in tribunale16. Quello che si sa è che il processo ebbe
un esito diverso rispetto a quello di Andocide, forse inatteso.
Socrate fu giudicato colpevole e condannato a morte.
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