Primo piano sul cadavere – Léo Malet

SINTESI DEL LIBRO:
In un angolo del camerino la costumista, una vecchia rattrappita
dall’aspetto vagamente scimmiesco, con il naso rosso e i capelli di
stoppa, stava preparando gli abiti che aveva appoggiato sul divano,
a pochi centimetri dalle mie cosce.
Julien Favereau, la star dello schermo, era alla sua toeletta
intento a togliersi il fondotinta.
Era un uomo aitante che portava bene i suoi quarant’anni. Gli
occhi scuri, caldi, tuttavia con qualche bagliore cupo e sgradevole,
illuminavano un viso di indiscutibile bellezza, per quanto non si
potesse dire altrettanto della sua intelligenza. Una leggera calvizie
gli scopriva la fronte dandogli un’aria distinta.
Mi dava le spalle e vedevo il suo viso riflesso nello specchio.
Alzandomi un po’ sulle chiappe, giusto quanto serviva, potevo
vedere anche il mio tra le scatole di fard.
Strano spettacolo!
Colpa dell’ex colonnello dell’esercito imperiale russo, che mi
aveva fatto una faccia così. Se fosse stato bravo come militare e
stratega quanto lo era come truccatore, Wrangel e gli altri avrebbero
sicuramente vinto. Per restare in tema, Davidovič Trotski ci avrebbe
lasciato il pizzetto. Ma non ero lì per affrontare problemi politici e
tattici o fare congetture sulla forma del naso di Cleopatra, per citare
Pascal. Ne avevo abbastanza del mio, di naso, e di tutto ciò che lo
circondava. Il russo bianco mi aveva dato davvero una sistemata coi
fiocchi. Era almeno la decima volta che facevo quell’amara
constatazione, ma non riuscivo ad abituarmi alla mia nuova faccia. E
se pensavo che tutte quelle precauzioni erano peraltro certamente
tanto ridicole quanto inutili, mi prendeva una gran voglia di
imprecare.
Dalla radice dei capelli al pomo d’Adamo, avevo un colorito color
albicocca, ma quello era niente. L’artista mi aveva allungato gli occhi
e in particolare aveva lavorato su quello di destra, che sembrava
mezzo chiuso o per effetto di un pugno di prima categoria o a
testimoniare la vita dissoluta e assai poco igienica dei miei
ascendenti. Una macchia di rosso si estendeva accanto al naso,
cosa che, in foto, doveva assottigliare la mia appendice e darle un
aspetto davvero strano. Niente a che fare con il naso di Zala-mort, il
vecchio eroe del cinema muto. La pelle delle guance e del mento mi
tirava un po’ per la colla di cui mi aveva cosparso il russo per
attaccarci un po’ di peli corti, in modo da creare l’effetto di una barba
di otto giorni, mentre al risveglio avevo sudato sette camicie per
radermi alla perfezione allo scopo di essere presentabile in un
ambiente dove avrei potuto incontrare femmes fatales a palate. Mi
ero anche lavato i denti due volte, sempre per la stessa ragione, e
adesso non solo li avevo gialli, ma i due incisivi laccati di nero
sembravano veri e propri buchi.
«Quando penso che è stato lei a dire a Wladimir di conciarmi
così...», borbottai.
«Cosa avrei dovuto fare?», rispose Favereau in tono secco. «Lei
non è un detective molto noto. Anzi, direi che non lo è per nulla. Ma
siccome ha commesso una volta l’imprudenza di far distribuire dei
volantini con sopra il suo ritratto, e siccome nel mondo del cinema
siamo tutti fisionomisti, non volevo correre il rischio che lei fosse
riconosciuto. Non c’è bisogno che si sappia che sono ricorso ai
servigi di un detective...».
Aggiunse, dopo una pausa:
«...Soprattutto a quei bastardi di giornalisti che sono sempre qui a
ficcare il naso dappertutto...».
Riempii una pipa e mi misi a ridere:
«Ha avuto fiuto a rivolgersi a Nestor Burma», dissi. «Chiunque
altro l’avrebbe già mandata a quel paese invece di farsi insultare.
Certo, lei è il famoso Favereau, amato dalle donne, colui che fa
strage di cuori e fa sognare chiunque porti una gonna... Quindi, le si
perdonano tante cose. E però, vorrei appunto sapere cosa si aspetta
da me. Non capisco».
Con una salvietta macchiata di ocra in mano, si girò sulla sedia
facendola scricchiolare e mi guardò in faccia.
«Non gliel’ho già detto? Ieri quando sono venuto nel suo ufficio e
poco fa, prima di girare? Sono stato minacciato», scandì. «Qualcuno
vuole uccidermi. In che modo? Lo ignoro. Ecco perché ho bisogno di
una guardia del corpo che sia più di una semplice guardia del corpo.
Bisogna infatti che sia anche un detective abile a scovare indizi...
qualcuno che possa fiutare il pericolo che mi minaccia e che non so
che forma possa prendere, capisce?».
«Capirei meglio se lei fosse meno reticente», sospirai. «Mi ha
parlato di minacce, ma senza precisare quali. In queste condizioni,
sarebbe preferibile un fachiro. Come vuole che possa rendermi utile
sulla base di informazioni così parziali... anzi, direi inesistenti».
«Lei si limiti a starmi alle calcagna e sia prudente».
«In altre parole, non mi paga per riflettere?».
«Ma sì, per la miseria, io...».
«Senta», lo interruppi con fermezza, «vorrei davvero parlarne una
volta per tutte. Mandi la Gioconda...».
Con un gesto del mento, indicai la costumista.
«...a comprarle le sigarette. Non so se sia perché mi ricorda mia
nonna o le rovine di Pompei, o perché prefigura come sarà Mima
Loy tra cinquant’anni, ma la sua presenza mi turba...».
«Può parlare davanti a Marie».
«Ah! Si chiama Marie...».
Era perfetto. La Marie in questione mi guardò di traverso. Il
minimo che si poteva dire è che non amava i miei raffronti
leonardeschi.
«Come vuole», mi rassegnai.
A mostrare la mia prostrazione, quasi mi stesi sul divano.
Proseguii:
«Sono una guardia del corpo un po’ speciale, eh? Se ho capito
bene, non ha sempre bisogno della mia protezione. Solo in un posto
determinato. E il posto in questione è lo studio cinematografico.
Quindi è qui che si trova il pericolo? Non so perché, ma – per quanto
sembri assurdo – altrove lei si sente al sicuro, almeno lo immagino,
mentre qui... Pericolo a eclissi, accidenti!... Uhm... non mi piace
procedere alla cieca. Mi dica chiaramente: da che parte soffia il
vento?...».
Forse per scoprirlo, feci uscire dalla pipa un fumo denso. Lo
guardai dissiparsi e, all’improvviso, pronunciai un nome:
«Marchand?».
Favereau aveva ripreso la sua posizione normale alla toeletta. Di
nuovo si voltò bruscamente con la fronte corrugata:
«Marie, fuori!», ordinò.
E quando la costumista ebbe obbedito:
«Cosa sa su Marchand?».
Mandai un’altra nuvola di fumo verso il soffitto a far compagnia a
una macchia di umidità. I locali di quello studio reclamavano
l’intervento di un imbianchino.
«Quello che sanno tutti: aveva una figlia che si era innamorata di
lei... come tutte... e lei non si è fatto scrupoli a coglierla come un
fiore. Quando l’ha mollata, era incinta. Questo non ha portato a un
soldato in più, ma a una cittadina in meno. È deceduta durante un
certo intervento... Aborto, nel caso non capisca... Chiaramente lei
non ne è il diretto assassino ma, per papà Marchand, è come se lo
fosse. Al suo posto, eviterei le passerelle. Il mestiere lo chiama lassù
e può facilmente farle precipitare un proiettore sulla testa... Oltre al
macchinista, c’è il truccatore, quello che era sul set prima, un
compatriota di Wladimir. Non so cosa lei gli abbia fatto, ma quando
pronuncia il suo nome sembra convinto che lei fosse il portinaio o
qualcosa del genere in casa Ipatiev, la succursale dei mattatoi dove
hanno ammazzato il suo zar...».
Favereau sorrise, con quel sorriso irresistibile che aveva sedotto
tante fanciulle ingenue, e anche altre, ma che aveva un effetto
piuttosto limitato su Nestor Burma.
«Raymonde era un’idiota», decretò. «Se mi avesse ascoltato,
sarebbe ancora viva. Al truccatore, ho dovuto prendergli la moglie di
tanto in tanto... alla giornata...». (Scoppiò a ridere, soddisfatto della
battuta). «Ne esistono molte altre in questo caso, un po’ in tutti gli
studi...».
Si contemplò nello specchio in modo fatuo, senza smettere di
sorridere. Il ricordo delle sue fortune lo gratificava. Avevo conosciuto
tizi più odiosi; ne avevo frequentati anche di più simpatici.
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