Passaggio in India – Edward Morgan Forster

SINTESI DEL LIBRO:
Con l’eccezione delle grotte Marabar - che sono a venti miglia di distanza- la città di Chandrapore non offre nulla di straordinario. Più rasentata che
bagnata dal Gange, si trascina per circa due miglia lungo la riva e a stento la
si riconosce dai detriti che il fiume deposita con tanta abbondanza. Sul
lungofiume non ci sono gradini per i bagni, perché caso vuole che qui il
Gange non sia sacro; in realtà non c’è lungofiume, e i bazar precludono
l’ampia e mutevole vista della corrente. Le strade sono sordide, i templi
abbandonati, e sebbene ci siano alcune case eleganti, sono nascoste in
giardini o in fondo a viali così sporchi da scoraggiare chiunque non vi sia
stato espressamente invitato.
Chandrapore non è mai stata né grande né bella, ma duecento anni fa si
trovava sulla strada che univa l’India superiore, allora imperiale, al mare, e le
case eleganti risalgono a quell’epoca. L’entusiasmo per la decorazione finì
nel diciottesimo secolo e non fu mai democratico. Nei bazar non c’è che
qualche scultura e nessun dipinto. Persino il bosco sembra fatto di fango, e la
gente di fango animato. Tutto ciò che lo sguardo incontra è così fatiscente,
così squallido, che quando scendono le acque del Gange ci si aspetterebbe di
vederle travolgere quell’incrostazione nella terra. Le case crollano, la gente
annega ed è lasciata imputridire, ma il profilo generale della città sussiste,
qua gonfiandosi, là ritraendosi, come un’infima ma indistruttibile forma di
vita. Nell’entroterra le cose cambiano. C’è un maidan ovale e un lungo
ospedale giallognolo. Le case degli euroasiatici sorgono sull’altura nei pressi
della stazione ferroviaria. Al di là della ferrovia - che corre parallela al fiume- il terreno degrada, poi torna a innalzarsi piuttosto ripido. Su questa seconda
altura è sistemato il piccolo centro amministrativo, e vista di là Chandrapore
appare un luogo del tutto diverso. E’ una città di giardini. Non è una città, ma
una foresta sparsa di rare capanne. E un parco tropicale bagnato da un nobile
fiume.
Le palme e gli alberi di nim e i manghi e i pipal che erano nascosti dietro
i bazar, ora sono visibili, e a loro volta nascondono i bazar. Si alzano dai
giardini dove li nutrono antiche cisterne, prorompono da soffocanti strettoie e
da templi abbandonati. In cerca di luce e d’aria, e più dotati di forza che
l’uomo e le sue opere, si librano al di sopra dei sedimenti inferiori per
salutarsi a vicenda coi rami e le foglie ammiccanti, e costruire una città per
gli uccelli. Dopo le piogge, in special modo, celano quello che accade sotto di
loro, ma sempre, anche riarsi e spogli, esaltano la città agli inglesi che abitano
sull’altura, tanto che i nuovi arrivati non possono crederla squallida come
viene descritta, e bisogna portarli giù per disilluderli. Quanto al centro
amministrativo, non suscita reazioni particolari. Non incanta e non ripugna.
E’ costruito secondo un piano razionale, con un Circolo di mattoni nudi in
cima, e più addietro, una drogheria e un cimitero: i bungalows, poi, sono
allineati lungo strade che si intersecano ad angolo retto. Di disgustoso non c’è
niente, e di bello c’è soltanto la vista; con la città, non ha in comune che
l’arco del cielo. Anche il cielo ha i suoi mutamenti, ma meno accentuati che
quelli della vegetazione e del fiume. Talvolta le nuvole lo intarsiano, ma per
lo più è una cupola di colori mescolati, e quello che predomina è l’azzurro. Di
giorno l’azzurro sbiadisce nel bianco dove tocca il bianco della terra, dopo il
tramonto ha un nuovo orizzonte - arancione, che in alto si stempera nel viola
più delicato. Ma la nota centrale dell’azzurro rimane sempre, e questo anche
di notte. Allora le stelle pendono come lampade dalla volta immensa. La
distanza tra loro e la volta non è nulla, in confronto alla distanza alle loro
spalle, e quella distanza più lontana, sebbene di là dal colore, si libera per
ultima dall’azzurro. Il cielo regola tutto
non soltanto i climi e le stagioni, ma anche il momento che la terra
dev’essere bella. Da sola lei può far poco - appena qualche debole erompere
di fiori. Ma quando il cielo lo decide, la gloria può piovere nei bazar di
Chandrapore o una benedizione passare da orizzonte a orizzonte. Questo il
cielo può fare perché è forte e così enorme. La forza gli viene dal sole, che
gliela infonde ogni giorno: l’immensità della terra prostrata. Nessuna
montagna frastaglia quella curva. Per miglia e miglia la terra è piana, si
solleva un poco, è nuovamente piana. Quell’infinita distesa è interrotta
soltanto a sud, dove un ammasso di pugni e di dita balza fuori dal suolo. Quei
pugni e quelle dita sono i monti Marabar, che contengono le straordinarie
grotte.
CAPITOLO 2.
Abbandonando la bicicletta, che cadde prima che un servo potesse
afferrarla, il giovanotto si slanciò nel portico. Era pieno di vivacità.
«Hamidullah, Hamidullah! ho fatto tardi?» esclamò. «Non ti scusare»
disse il padrone di casa. «Tu fai sempre tardi.»
«Rispondi alla mia domanda, sii buono. Ho fatto tardi? Mahmoud Ali ha
mangiato tutto? Se è così me ne vado. Signor Mahmoud Ali, come state?»
«Grazie, dottor Aziz, sto morendo.»
«Prima di pranzo? Oh, povero Mahmoud Ali!»
«Il nostro Hamidullah è già morto. Ha esalato l’anima mentre voi filavate
in bicicletta.»
«Proprio così» disse l’altro. «Fa’ conto che ti stiamo parlando tutti e due
da un altro mondo più felice.»
«E in quel vostro mondo più felice esiste qualcosa come un hookah (pipa
orientale), per caso?»
«Aziz, non chiacchierare tanto. Stiamo facendo un discorso molto triste.»
L’hookah era stata troppo intasata, come sempre in casa del suo amico, e
gorgogliava bisbetica. Lui la ammansì. Decidendosi a cedere, il tabacco
finalmente gli zampillò nei polmoni e nelle narici, cacciandone il fumo di
sterco bruciato che glieli aveva riempiti mentre correva in bicicletta per il
bazar. Era delizioso. Egli cadde in un rapimento, voluttuoso ma sano, entro il
quale il discorso degli altri due non sembrava particolarmente triste - stavano
discutendo se fosse possibile o no fare amicizia con un inglese. Mahmoud Ali
sosteneva di no, Hamidullah era di parere contrario, ma con tante riserve che
tra loro insorgeva un attrito. L’ospite si risolse a giacere sotto il vasto portico,
col sorgere della luna di fronte, alle spalle i servi che preparavano il pranzo, e
nessun guaio in cammino. «Be’, guardate quello che mi è successo
stamattina.»
«Io sostengo solo che in Inghilterra è possibile» ribatté Hamidullah, che
vi era stato molto tempo addietro, prima della grande emigrazione, e a
Cambridge aveva ricevuto una cordiale accoglienza. «Qui è impossibile,
Aziz! Quel ragazzo dal naso rosso mi ha insultato di nuovo in tribunale.
Non lo biasimo. Gli hanno detto che deve insultarmi. Sino a poco tempo
fa era un ragazzo simpaticissimo, ma gli altri l’hanno sobillato.»
«Sì, qui non hanno via d’uscita, ecco la mia tesi. Arrivano con
l’intenzione di comportarsi da gentiluomini, e gli dicono che non servirà a
niente. Guardate Lesley, guardate Blakiston, e adesso è la volta del vostro
ragazzo dal naso rosso, e poi toccherà a Fielding.
Ecco, mi ricordo di quando era appena arrivato Turton. Stava in un’altra
zona della provincia. Voi non ci crederete, ma io sono andato con Turton
nella sua carrozza. Turton! Proprio così, una volta eravamo amici intimi. Mi
ha mostrato la sua collezione di francobolli.»
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