Omicidio a Berlino – Joseph Kanon

SINTESI DEL LIBRO:
Si trovavano ancora a qualche chilometro di distanza quando
cominciò a sentire gli aerei, un ronzio basso e costante, sempre più
vicino, simile al rumore che dovevano aver fatto in passato i
bombardieri. Adesso il carico consisteva di cibo e sacchi di carbone.
Oltre Köpenick poteva intravedere nel cielo le loro luci, in discesa
verso la città scura, un aereo dopo l’altro, ogni trenta secondi
dicevano, se era possibile, per scaricare e poi riprendere il volo, le
luci una linea di puntini che man mano svanivano, come proiettili
traccianti.
«Come fanno a dormire?»
«Dopo un po’ smetti di sentirli», disse Martin. «Ti ci abitui».
Questa era stata forse l’esperienza di Martin, a Berlino da poco.
Ma che dire degli altri, che dovevano ricordare le notti trascorse
accalcati nei rifugi antiaerei, in attesa della morte, ad ascoltare il
rumore dei motori – quant’erano vicini? –, il gemito con cui la prua si
spingeva verso l’alto, libera dal peso delle bombe, sospesa adesso
da qualche parte sulle loro teste.
«Quanti aerei», disse Alex, quasi tra sé. «Per quanto potranno
andare avanti?». Die Luftbrücke, l’attuale ancora di salvezza di
Berlino, con i pacchettini di caramelle paracadutati per i bambini, e
per i fotografi.
«Non per molto ancora», disse Martin, convinto. «Pensi al costo. E
per cosa? Stanno cercando di creare due città. Due sindaci, due
polizie. Ma la città è una sola. Berlino è sempre nello stesso posto,
nella zona sovietica. Non possono spostarla. Dovrebbero andarsene
subito. Lasciare che le cose tornino alla normalità».
«Be’, normalità…», disse Alex. Il rumore degli aerei stava
aumentando, quasi sulle loro teste, Tempelhof appena un distretto
più a ovest. «E se ne andranno anche i russi?»
«Penso di sì», disse Martin, che l’aveva già considerato. «Entrambi
rimangono per l’altro. Gli americani non se ne vanno perché i
russi…». Si interruppe. «Ma dovranno farlo per forza. Non è
ragionevole», disse, usando il termine alla francese. «Perché
dovrebbero restare, i russi? Se la Germania fosse neutrale. Non più
una minaccia».
«Neutrale ma socialista?»
«E che altro? Dopo i fascisti. È quello che vogliono tutti, penso, lei
non crede?». Poi si accorse di cosa stava dicendo. «Mi scusi. È
evidente che lo pensa anche lei. È tornato per questo, per una
Germania socialista. Per costruire il futuro con noi. Era il sogno del
suo libro. Le ho detto, credo, che sono un grande ammiratore…».
«Sì, grazie», disse Alex, stancamente.
Martin si era unito a lui quando aveva fatto cambio di auto al
confine ceco, capelli color paglia tirati indietro con la brillantina, viso
pulito e impaziente, gli stessi occhi brillanti di determinazione di un
membro della Gioventù Hitleriana. Era il primo uomo giovane che
Alex avesse incontrato dal suo arrivo, tutti gli altri sepolti o
scomparsi, irrintracciabili. Poi, un paio di passi strascicati e ne aveva
compreso il motivo: un piede equino alla Goebbels l’aveva tenuto
lontano dalla guerra. Con quella gamba e i capelli imbrillantinati gli
assomigliava anche un po’, a Goebbels, solo senza le guance
incavate, gli occhi da predatore. Adesso traboccava di entusiasmo,
la reticenza formale dei primi tempi si era trasformata presto in
un’alluvione di chiacchiere. Quanto era stato importante per lui Der
letzte Zaun. Quanto era felice che Alex avesse deciso di fare dell’Est
la sua casa, “votando con i piedi”. Quanto erano stati difficili i primi
anni, il freddo, le razioni da fame, e quanto andava meglio adesso, lo
vedevi tutti i giorni. Era arrivato Brecht: Alex l’aveva conosciuto, in
America? E Thomas Mann? Martin ammirava moltissimo anche
Brecht. Magari avrebbe potuto scrivere un’opera basata sul Der
letzte Zaun di Alex, un importante lavoro antifascista, qualcosa che
potesse incontrare il suo gusto.
«Dovrebbe prima parlarne con Jack Warner», disse Alex,
sorridendo tra sé. «Controlla lui i diritti».
«C’è un film? Non lo sapevo. Del resto, noi non vedevamo mai film
americani».
«No, doveva esserci, ma alla fine non l’ha mai fatto».
L’ultima recinzione, selezionato dal Book-of-the-Month-Club, il Club
del libro del mese, il fortunato successo che aveva sostentato il suo
esilio. La Warner Bros l’aveva acquistato per Cagney, poi per Raft,
poi per George Brent, poi era arrivata la guerra e loro avevano
voluto storie di battaglia, non fughe dai campi di prigionia, così il
progetto era stato accantonato, l’ennesimo “si sarebbe-potuto-fare”
da aggiungere a uno scaffale strapieno. Ma con la vendita si era
pagato la casa di Santa Monica, non lontana da quella di Brecht, in
effetti.
«Ma sei riuscito a leggerlo?», disse Alex. «Si trovavano copie in
Germania?». In realtà chiedendo: tu chi sei? Un rappresentante del
Kulturbund, d’accordo, l’associazione degli artisti, ma che altro? Qui
tutti ormai avevano una storia, un passato da tenere in conto.
«In Svizzera potevi mettere le mani sull’edizione Querido». La casa
editrice di Amsterdam che pubblicava le opere degli esiliati, il che
spiegava il libro, ma non Martin. «Certo, in Germania c’erano ancora
parecchie copie di Der Untergang, anche dopo che l’avevano messo
al bando».
Sconfitta, il libro che gli aveva dato prestigio, presumibilmente la
ragione per cui la Germania lo rivoleva indietro, Brecht e Anna
Seghers e Arnold Zweig erano di nuovo a casa e adesso ecco Alex
Meier, il ritorno degli esiliati della Germania. Per l’Est, anche la
cultura faceva parte della nuova guerra. Lui pensò a Brecht ignorato
in California, Seghers invisibile a Città del Messico, ora di nuovo
celebrati, fotografie sul giornale, discorsi di benvenuto degli ufficiali
del Partito.
C’era stato un pranzo in suo onore, nella prima città oltre il confine.
Per arrivare in tempo avevano lasciato Praga all’alba, le strade
ancora buie, scivolose di pioggia, proprio come sembravano essere
sempre nei libri di Kafka.
Poi chilometri di campi ispidi, fattorie a cui serviva una riverniciata,
anatre che sguazzavano nel fango. Nella città di confine – come si
chiamava? – Martin l’aveva accolto con un mazzo di fiori, il sindaco
e i membri del consiglio cittadino si erano presentati sfoggiando gli
abiti della domenica, lisi e sfondati, un pranzo formale al Rathaus.
Avevano scattato foto per il «Neues Deutschland», Alex che
stringeva la mano al sindaco, il ritorno del figliol prodigo. Gli avevano
chiesto di dire qualche parola. Guadagnarsi il pane. La ragione per
cui si trovava lì, il motivo stesso per cui gli avevano offerto il
permesso di residenza, perché costruisse il futuro con loro.
Si era aspettato di trovare l’intera Germania in rovina, il Paese che
vedevi su «Life», impegnato a scavare, ma in realtà il paesaggio
dopo pranzo non era che un proseguimento del viaggio della
mattina, fattorie scalcinate e strade desolate, i bordi masticati da
anni di carri armati e camion pesanti. Non la Germania che aveva
conosciuto lui, la grossa casa di Lützowplatz. Ma pur sempre
Germania. Sentì lo stomaco stringersi, la stessa familiare
apprensione, in attesa dei colpi alla porta. Adesso pranzo con il
sindaco, quei brutti giorni nascosti nel passato.
Evitarono Dresda. «Le spezzerebbe il cuore», aveva detto Martin.
«Quei maiali. Hanno bombardato tutto. Senza motivo». Ma che
motivo avrebbero potuto avere? Come per Varsavia, Rotterdam, per
ognuna di quelle città, Martin troppo giovane forse per ricordare la
gente che esultava in strada. Alex non disse niente, guardando fuori,
i
grigi campi invernali. Dov’era la gente? Ma l’anno era già troppo
avanzato per il lavoro nei campi e gli uomini in ogni caso
mancavano.
Martin insistette per tenergli compagnia sul sedile posteriore, uno
status implicitamente più alto di quello dell’autista, il che significò che
parlarono per tutto il viaggio fino a Berlino.
«Mi scusi, non la disturbo, vero? Per me è un’occasione
meravigliosa. Mi sono sempre chiesto. La famiglia di Sconfitta?
Erano persone vere, di sua conoscenza? Come nei Buddenbrook?»
«Persone vere? No», disse Alex.
Erano ancora vivi? Irene ed Elsbeth ed Erich, il vecchio Fritz, le
persone della sua vita, inghiottiti dalla guerra, forse ormai nient’altro
che nomi in un elenco di rifugiati, irrintracciabili, la loro unica
esistenza nelle pagine di Alex, cosa che Fritz avrebbe odiato.
«Non siamo noi, queste persone», gli aveva urlato. «Mio padre non
ha mai giocato d’azzardo, non così».
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