Novantanove notti nel Lowgar – Jamil Jan Kochai

SINTESI DEL LIBRO:
A un certo punto della notte, Budabash si era liberato.
Non sapevamo come. Sapevamo solo che l’aveva fatto e che noi
dovevamo andarlo a cercare. Io e Gul e Zia e Dawood in marcia per
le strade del Lowgar, insieme, per la prima volta, nella speranza di
riportare a casa Budabash prima di notte.
Era passata solo qualche settimana dal mio arrivo, dal ritorno a
casa della mia famiglia nell’estate del ’05, quando costava solo mille
dollari attraversare l’oceano in aereo, da Sac a SF a Taipei a Karachi
a Peshawar e poi fino in Lowgar, dove, all’epoca, la guerra degli
americani, anche se non era morta, sonnecchiava, come fosse in
coma, o barcollasse strafatta di quella neve afgana che negli ultimi
tempi andava alla grande e aveva fatto diventare quasi inoffensivi
soldati, banditi e robot. E cosí, per un musafir che veniva
dall’America, l’unica preoccupazione era come ammazzare un’altra
torrida giornata estiva.
Gulbuddin disse che quella era un’operazione da quattro uomini.
Lo disse in pashto, perché il mio farsi faceva pena.– Vedete, – spiegò a me, Zia e Dawood quando ci riunimmo nel
frutteto prima di partire per la nostra spedizione, – se siamo piú di
quattro diamo troppo nell’occhio, se siamo meno di quattro rischiamo
che qualcuno ci faccia la festa.
Gul era seduto a capo del nostro circolo, e si rigirava fra le dita la
punta dei folti baffi neri che le sorelle maggiori cercavano sempre di
strappargli via perché lo facevano somigliare troppo agli affascinanti
gangster turchi delle loro soap opera preferite. Da dov’era seduto
con le spalle al muro di fango che correva tra il cortile e il frutteto
poteva tenere d’occhio tutti i meli, la stalla, il grande cancello blu e
anche l’angolo del frutteto dove di solito Budabash se ne stava a
cuccia e dormiva, e dove mi aveva portato via un dito con un morso.
Gul era il mio zietto. Quattordici anni. Il piú grande della nostra
banda.– E se facessimo quattro e mezzo? – dissi io, pensando a mio
fratello piccolo.– Che cosa ho appena detto, Marwand?– Che piú di quattro diamo nell’occhio, – rispose Dawood.– Ma un mezzo in piú può tornare utile, – dissi io.– Non il mezzo che hai in mente tu, – disse Dawood, accucciato
all’estremità piú esterna del nostro circolo, dove occupava piú spazio
del dovuto.
Dawood era l’altro mio zietto. Dodici anni. Come me.– Ascoltate, fellah, – continuai io. – Cinque è un buon numero. I
cinque pilastri. Le cinque preghiere. I cinque giocatori di una squadra
di basket.– Sono solo cinque? – chiese Zia.– Allora, parliamo di quattro e mezzo o di cinque? – chiese
Dawood.– Il futbol è meglio, – disse Zia. – Nel futbol giocano tutti.– Tu cosa ne pensi? – Guardai Zia. Lui era mio cugino. Il figlio
maggiore di Rahmutallah Maamaa. Tredici anni, probabilmente,
anche se coi ragazzini del Lowgar non potevi mai saperlo con
certezza. Ma Zia si limitò a scrollare le spalle ossute e a puntare le
dita su Gulbuddin a mo’ di pistole. – Cic, cic, – disse, – bum, bum,
e premette due volte i grilletti.
Gulbuddin fece un cenno con la testa in direzione di Zia e
schiacciò l’aria con le mani dall’alto verso il basso. I suoi occhi,
verde cacca d’anatra, passarono da noi al cancello al cortile, dove il
resto della famiglia dormiva ancora.
Ci zittimmo.– Mettiamolo ai voti, – disse. – Su la mano chi vuole portarsi
dietro Gwora.
Dawood si sfregò la testa rasata come se avesse intenzione di
votare per Gwora ma non riuscisse a decidersi.
Zia teneva le dita scheletriche annidate in grembo, e ripassava i
novantanove nomi di Allah.
Gul non muoveva un muscolo.
Nel gelo mattutino, l’unica mano a schizzare verso l’alto fu la mia.– E va bene, cazzo, – brontolai in inglese, e mi rimisi alla volontà
della jirga.
Ora che il mio fratellino era stato rifiutato, me ne restai zitto per
tutto il resto della riunione, mentre loro affrontavano una dopo l’altra
una raffica di questioni: come partire, dove cercare, dove fermarsi,
dove avrebbe fiutato Dawood, dove avrebbe pregato Zia, cosa
avrebbe escogitato Gul se ci fossimo imbattuti in un marine o un jinn
o un bandito o uno degli altri nostri zii già sulle tracce del fuggitivo.– Andiamo. Troviamo Budabash. Lo riportiamo a casa, – disse
Gul. – Semplicissimo. Dawood fiuta. Io faccio domande. Zia prega. E
se incontriamo Rahmutallah, Marwand farà in modo che non ci
riempia di botte. Giusto, Marwand?
Rahmutallah Maamaa – il mio zio piú anziano – era già in giro a
cercare Budabash. Se quel giorno ci avesse beccato, avrei dovuto
dirgli che la nostra missione era stata un’idea mia.– Va bene, – promisi. – Dirò una bugia.– Lo giuri su Dio, che dirai una bugia? – chiese Dawood.– Non giurare se non ne sei piú che sicuro, – mi intimò Gul.– Ti prendi un impegno con Allah, – aggiunse Zia.
Gul e Dawood fecero delle pistole con le dita e me le puntarono al
petto. Feci una pistola anch’io, e me la puntai da solo alla tempia.
– Wallah, – dissi, armando il dito. – Non farò la spia.
Gul rise e mi prese le mani. – Perfetto, – disse, stando attento alla
benda che mi avvolgeva il dito mutilato. – Stavamo scherzando, sai,
solo per ridere. Capisci?
Dissi di sí.
Dopo aver radunato le provviste – biscotti e mele, quattro coltellini
avvolti in carta da pacchi, otto bottiglie d’acqua, la prima siparah del
Corano, una scatoletta di fiammiferi, due taccuini che io e Gwora
avevamo riempito con le nostre osservazioni su Budabash, quattro
gomitoli di spago, nastro adesivo e la mia macchina fotografica
Coolpix – ci avviammo verso il grande cancello blu, e fu lí, sulla
soglia fra il cancello e la strada, il compound e il villaggio, che
Gwora, il mio fratellino, vide che me la stavo svignando.
Era nel frutteto, con le braccia cariche di fogli e quaderni, e
correva verso di noi urlando che avevamo fatto un lavoro, che
avevamo un patto, supplicandomi di portarlo con noi. Io gli spiegai in
inglese, con molta calma, che non poteva venire, e che non
dipendeva da me; ma lui non voleva ascoltare, non voleva capire, e
per tutto il tempo i fellah mi guardavano dal cancello, bisbigliando tra
loro in farsi, finché non gli spiegai un’ultima volta, in pashto, perché
doveva restare a casa, ma siccome continuava a non voler capire,
glielo feci vedere, il perché.
Non ci volle molto.
Dopo avergliele suonate di brutto, lo lasciai raggomitolato su se
stesso nel frutteto: lui cercava di non piangere, mentre io e gli altri
fellah ci incamminavamo per le strade del Lowgar a cercare per tutta
la giornata il lupo-cane che qualche settimana prima mi aveva
staccato a morsi la punta dell’indice.
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