Nebbia sul ponte di Tolbiac – Léo Malet

SINTESI DEL LIBRO:
Visto che avevo la macchina a riparare, presi il metrò.
Avrei potuto tentare di acchiappare un taxi, ma eravamo a un mese
e mezzo da Babbo Natale. Pioveva di brutto e si sa che, appena cadono
anche solo due gocce, i taxi si fanno subito più rari. Dev’essere che si
restringono con l’umidità. Non trovo altra spiegazione. E quando non
piove più, non vanno mai nella direzione desiderata dal cliente. Per
quest’ultimo fenomeno, non ho spiegazioni ma i conducenti, loro, ne
offrono di eccellenti.
Presi quindi il metrò.
Non sapevo bene chi o cosa mi sollecitasse all’ospedale della
Salpètrière. Andavo in quel posto così poco invitante su convocazione,
per così dire.
Avevo ricevuto con la posta di mezzogiorno, al mio ufficio di rue
des Petits-Champs, una lettera abbastanza misteriosa da suscitare il
mio interesse.
Anche se l’avevo già letta più volte, la rilessi nel vagone di prima
classe della linea Eglise de Pantin-Place d’Italie, che mi portava a
destinazione.
Diceva:
Caro compagno, mi rivolgo a te, anche se sei diventato uno sbirro,
sei però uno sbirro un po’ particolare, e poi ti ho conosciuto da
ragazzino…
La lettera era firmata Abel Benoit. Abel Benoit? Non ricordavo di
aver mai conosciuto, da ragazzino o dopo, uno con quel nome. Avevo
però un sospetto – un’idea molto vaga – sul possibile ambiente di
origine della missiva, ma Abel Benoit, nel senso di qualcuno di nome
Abel Benoit, non lo conoscevo.
Il tipo proseguiva:
…Un farabutto sta tramando delle porcherie. Vieni a trovarmi in
ospedale. Salpétrière, stanza 10, letto…
Lì non era ben chiaro. Si poteva leggere 15 o 4, a scelta.
…Ti spiegherò come salvare la pelle a degli amici. Fraternamente,
Abel Benoit.
Nessuna data, eccetto quella sul francobollo da quindici franchi
stampata dal timbro obliteratore dell’ufficio postale di boulevard
Masséna. A parte la firma dal tratto abbastanza fermo, come tutte le
firme, la scrittura del biglietto era piuttosto tremolante. Cosa
facilmente spiegabile. Quando uno giace su un materasso della sanità
pubblica è perché la salute lascia a desiderare e, se le mani tremano, la
grafia ne risente. Non solo, un ginocchio non è come un tavolo su cui
appoggiarsi. L’indirizzo sulla busta era opera di un’altra mano. Il foglio
a quadretti utilizzato usciva da una confezione tre per due del tipo più
economico. Il tutto sembrava aver soggiornato più o meno a lungo in
una tasca o in una borsa, prima di essere infilato nella cassetta.
Emanava, per un naso attento, un tenue effluvio di profumo a buon
mercato. Il tipo aveva probabilmente affidato il messaggio a
un’infermiera un po’ negligente quando era fuori servizio. Dal tenore
del biglietto si poteva anche concludere che il mio corrispondente non
amava i poliziotti e che un pericolo minacciava degli amici comuni (?)
a causa di un tipo mal intenzionato.
Piegai la lettera e la sistemai tra le altre carte che mi portavo dietro,
chiedendomi perché mi dedicassi a quello sterile giochino di deduzioni
melmose. Era un modo di perdere tempo inutilmente, visto che ben
presto mi sarei ritrovato in presenza di quel misterioso malato
sconosciuto. A meno che…
L’idea che potevo essere vittima di uno scherzo non mi aveva
ancora sfiorato, ma adesso, di colpo, mi venne. Abel! Non ti dice
niente, Nestor? Pensaci bene, è il tuo mestiere. Abel! E se per caso il
farabutto che stava macchinando delle porcherie si chiamava Caino?
Eh? Sarebbe divertente, no? Un bel pesce d’aprile, consegnato a metà
novembre, come un rimpianto dei bei giorni andati per opera di un
burlone raffinato.
In ogni caso, non mancava molto alla soluzione. Quindi, nell’attesa,
tanto valeva guardarsi attorno per vedere se per caso non ci fossero un
paio di gambe velate di nylon degne di attirare l’attenzione di un
onest’uomo. Mi avrebbero distratto. Anche i raggirati hanno il diritto
di distrarsi. Di solito, sotto questo aspetto – parlo di gambe femminili,
ben tornite, finemente inguainate e incrociate abbastanza in alto, cosa
che non guasta affatto – si è sempre piuttosto ben serviti. Be’…
dipende dai giorni naturalmente. Bisognava quindi credere – pessimo
presagio! – che quello non fosse il giorno buono per me, almeno quel
pomeriggio. C’era sì una bionda vaporosa, seduta sul fondo della
carrozza, ma mi girava le spalle. Quanto agli altri viaggiatori, tutti
rappresentanti del sesso forte, ignoro come fossero le loro gambe
non voglio neanche saperlo – ma, nell’insieme, avevano delle brutte
facce.
I due zoticoni davanti a me in particolare. Due giovinastri, conciati
con dei colletti inamidati, modello calicot della domenica. Una parte
del vagone di prima era stata convertita in seconda classe e quelli non
distoglievano lo sguardo dal vetro divisorio, tenendo le loro testoline
da elettori medi l’una contro l’altra, dandosi talvolta di gomito, da
cafoni fatti e finiti, o ridendo silenziosamente e stupidamente, quando
non abbozzavano, per non rimanere inattivi, una smorfia grottesca.
Forse andavano anche loro alla Salpètrière, ma per seguire una cura.
Peccato che il professor Charcot fosse morto nel 1892. Sarebbero stati
due soggetti interessanti per lui.
Infastidito dal comportamento di quegli odiosi individui, mi alzai.
Avevo altre tre buone ragioni per abbandonare il mio posto. Ero
abbastanza curioso di vedere quale spettacolo li eccitasse in tal modo,
la mia stazione si stava avvicinando e, infine, avevo la strana
impressione di essere osservato: sentivo due occhi che mi fissavano
con insistenza la nuca o le spalle e pensavo di potermene liberare
spostandomi. Mi alzai quindi e, dirigendomi verso una porta,
adocchiai la parte più democratica della carrozza.
La ragazza che aveva mandato in trance i due stolti davanti a me
era in piedi vicino al vetro divisorio, per non dire appoggiata contro.
Sembrava a migliaia di chilometri da lì, intenta a raccogliere
pervinche, ma quando i nostri sguardi si incrociarono, lei incatenò il
suo al mio con un impercettibile movimento delle ciglia.
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