Melville – Jean Giono

SINTESI DEL LIBRO:
Quando nel 1849 Melville ritornò in America, dopo un breve
soggiorno in Inghilterra, si portava dietro uno strano bagaglio. Era
una testa imbalsamata; ma era la sua. Conosceva i costumi delle
isole cannibali e il commercio di una testa separata dal suo legittimo
erede non poteva né stupirlo né spaventarlo. Questa volta tuttavia
era la sua stessa testa; e ci volevano davvero interi giorni e intere
notti per sentirla, separata com’era dal rude corpo di marinaio e
colma di un leggero balsamo più profumato ancora di una mattina di
maggio in riva al mare, una mattina di maggio in collina o una
mattina di maggio in qualsiasi posto; insomma, di un profumo
indefinibile ed eterno.
In realtà, era partito per l’Inghilterra con l’unico scopo di consultare
i suoi editori. Aveva già scritto quasi tutti i suoi libri a quel tempo.
Almeno, secondo lui, li aveva scritti tutti. Sentiva di essersene
sbarazzato.
Era un uomo di un metro e ottantatré con sessantasette centimetri
di spalle. Il suo volto un po’ allungato ma piuttosto largo era come
deve essere quello di un uomo di mare, segnato da zigomi
squadrati, con una sottile piega delle guance verso la bocca. Né
grasso, né magro. Capelli scuri con grandi onde di un ramato più
chiaro ne ricoprivano il capo, scendendo ben sotto la nuca, tenuti in
ordine usando le dita come pettine, tranne che per due alette ribelli
color nero corvino che s’incurvavano all’indietro su ogni tempia,
robuste e rigide come due vere ali. Tra queste ali, sotto la fronte
liscia, vellutata e ricurva come il pancino di una bambina, dormivano
i suoi occhi grigio-blu, un po’ sperduti, ben protetti da una grande
arcata e da lunghe ciglia, e a volte sotto gli ordini del cuore, si
coprivano di uno smalto azzurro terso, quasi opaco come il cielo
sotto il grande sole di agosto. Un bel naso dritto, molto grande e ben
dilatato, i baffi scuri e un piccolo risvolto di labbra rosee nella barba
quasi squadrata a tre centimetri dal mento. Eccolo qua! Inoltre,
appena trentenne; era nato nel 1819, l’anno in cui nacquero
Kingsley, Lowell, Ruskin, Whitman e la regina Vittoria. Una buona
annata. Degli antenati tutti di lignaggio scozzese; si potrebbe far
risalire la sua origine fino a Sir Richard de Melville che si alleò con
Edoardo I nel XIII secolo. Ah, chiaramente, suo padre, Allan Melville,
era un mercante; non si proviene dal lontano XIII secolo senza alcun
danno, e del resto sarebbe monotono essere legato a dei re per
centinaia di anni. Allan era inoltre, per così dire, un mercante quasi
nobile: un importatore che le necessità del suo commercio
spingevano a viaggiare in Europa. Forse non era più legato a una
discendenza di re, ma lo era ancora a qualche re di lardi, oppure
partiva in guerra contro questi re del commercio e combatteva contro
di loro brandendo codice, bilancia e tonnellaggio.
Ebbene, nel 1814 questo padre, o piuttosto questo futuro padre,
Allan, prese in sposa Maria Gansevoort. Povera cara mamma!
Come deve sforzarsi Melville per cacciare il dolce balsamo dalla sua
testa per poter pensare a lei adesso. Il più bel mese di maggio non è
mai stato profumato per la povera Maria. Era fredda, magra,
materialista, secca, metodica, spigolosa, arrogante; e il tutto riunito
in un esemplare davvero unico, a giudicare dalla perfezione totale di
ognuna di queste componenti sentimentali e fisiche che, rivestite di
rigidi fustagni da due soldi e armate di stecche, erano diventate
Mistress Melville. Di queste stecche femminili di cui più tardi suo
figlio parlerà con tanto casto umore, faceva un uso smisurato. Dio
avrebbe voluto che servissero per drappeggiarle attorno al corpo
una stoffa voluttuosa! Ma fin da quella che non si può definire una
tenera giovinezza, aveva strappato dalla sua Bibbia le poesie
d’amore e, già madre numerose volte, arrossiva ancora al solo
leggere i nomi di Ruth, Esther, Judith, di tutte quelle donne,
insomma, che avevano messo al servizio della gloria del Signore gli
organi abietti della donna. Si riposava solo con la lettura del libro dei
Numeri in cui, in ogni istante, nuove leggi vengono a consolidare
l’ordinamento principale. Le piaceva sentir parlare della costruzione
del tempio e dell’enumerazione delle ricchezze che devono servire
alla creazione dell’arca. Ebbe otto figli come otto ordini in un registro
delle commesse; si vergognava ogni volta di quell’amara e brutale
primavera che le gonfiava i fianchi, del neonato appeso al seno
come una virgola decimale a una cifra, ma subito ritornava con una
gioia feroce la glaciale amministratrice dell’economia dei Melville.
Herman, il terzo degli otto figli, fu chiamato col nome del padre di
sua madre. Dello straordinario piacere tattile dell’infanzia, della
carezza del seno materno, Herman conservava un ricordo
sgradevole e pungente, come se fosse stato allattato a cavallo
attraverso le giunture dell’armatura di una guerriera dell’Ariosto. Oh
no, non per lui! Inoltre, aveva sempre preso il latte dove scorreva, e
anche adesso, una goccia sull’acciaio era pur sempre una goccia.
Le barche e il mare avevano esercitato su di lui una profonda
seduzione fin dalla più tenera età, come tutte le correnti d’aria più
potenti che trascinano verso grandi disordini. Aveva appena dieci
anni quando, da New York, scriveva a suo padre e alla sua casa
così ben ordinata:
Questo pomeriggio d’inverno mi hanno portato in fondo al molo
che si estende più in là sul mare. C’erano onde mostruose, più
alte delle montagne. Tutto intorno gli alberi delle navi colpivano
l’acqua come fruste. E mi hanno detto che colpivano l’acqua
così in tutto il mondo: a Havre, a Liverpool e perfino nel porto di
Londra.
La sua infanzia era del tutto normale ma suo padre diceva: è molto
in ritardo nello sviluppo del linguaggio e sembra avere una
comprensione un po’ lenta. Sì, per le cifre. West, il suo professore
all’Albany Classical Institute, dirà: «Mi ricordo bene di lui. Era il mio
allievo preferito. Era del tutto negato in matematica ma molto forte
nei temi e nei componimenti. Gli piaceva inventare e scrivere,
sebbene in generale la grande maggioranza degli allievi lo considera
un compito terribile e cerca di evitarlo malgrado tutte le punizioni».
Nel momento in cui West parlerà così di lui, Herman, morto nel
1891, avrà già la testa piena di terra.
Ma per il momento la sua testa è piena di balsamo e maggio
fiorisce nei suoi occhi. I suoi ricordi sono dei re: isole coronate da un
sole spumeggiante, il silenzio ininterrotto delle acque coronate da
atolli e la mostruosa corona errante dei tifoni che avanza ruotando
attraverso il collasso dei monsoni come la corona dei re di
Shakespeare. Il balsamo però proviene da una semplice corona di
biancospino. Gliel’hanno messa in testa un giorno; è affondata fino a
quelle ali ribelli di capelli neri che gli ricoprono le tempie. Nel
toglierla, si è graffiato la fronte con una piccola spina rossa. Si
guarda allo specchio. Adesso non c’è più nessuna traccia sulla
fronte, ma se tocca il punto col dito è ancora appiccicoso e morbido
come se stesse toccando una torta al miele.
Alla morte del padre, ha dovuto lasciare la scuola. Maria si è
sfregata le mani da vedova. Che fare di un bambino di quindici anni
nella costruzione di un tempio? A quest’ora si può sempre farne un
impiegato in banca. Entra nella New York State Bank dove suo zio è
amministratore. Quando però lo portarono in fondo al molo di New
York, non gli fu detto che il cuore di un bambino poetico contiene più
alberi sferzanti e più vele spiegate di tutti i porti del mondo messi
insieme. Ed eccolo lì adesso, tra quelle mura, intralciato dalle sue
flotte. La sua scia sa di catrame, canapa, legno di pino bagnato,
iodio, frutti di mare e ragù di vongole. È insopportabile. Non ce la fa.
L’anno dopo, è già fuori. Aiuta per modo di dire suo fratello; in realtà,
legge e studia: muove verso il mare aperto le sue flotte.
Niente impedisce all’uomo di respingere di continuo gli orizzonti. Il
raggio delle cose visibili è sottoposto al nostro passo, cioè alle
nostre forze. Un anno dopo, eccolo nella fattoria di suo zio a
Pittsfield nel Massachussetts. Senza rendersene conto, fugge
sottovento, davanti alla tempesta che lo perseguita; aggira la Maria
rocciosa; d’istinto, sa che le sue manovre sono più sicure al largo.
Un momento di pace nei campi. Scrive a sua madre di essere il solo
che osa avvicinarsi al toro. Scrive a suo fratello: «Di tutti i grandi
progetti che avevo per la mia vita non rimane niente. Vorrei
affrontare un grande pericolo e smettere infine di dubitare di me
stesso». La primavera non è mai stata così bella nei frutteti di
Pittsfield. Il furore dei fiori stupisce i fattori. Il loro manto grava
talmente tanto sugli alberi che questi gemono come sotto il peso
della neve. Una vernice straordinariamente limpida colora di verde le
masse più scure della notte e le stelle sono così vicine alla terra che
producono un sordo ronzio. Il vento non soffia ma alita. Una
fecondazione insolita moltiplica gli animali nei nidi, nelle lettiere,
nelle stalle, nei parchi, nei porcili, nelle conigliere. Il branco degli
animali trema come un’enorme strato di gelatina su tutti gli Stati
Uniti. Li si sente nascere in incredibile abbondanza fino alla città di
New York oltre i sobborghi; e il rumore degli omnibus, dei traghetti,
dei taxi e delle cinghie di trasmissione si attenua sotto il rumore
crescente dei belati, dei muggiti, delle strida, del rigonfiarsi dei
germogli e del chiacchiericcio delle oche. Maria scrive al fattore: «Si
prepara un’annata molto abbondante. Voglio che facciate capire a
Herman cos’è il commercio. Ho deciso, fratello mio. Direte a Herman
che gli saranno dati i quattordici meli che sono dietro le stalle, nel
grande giardino quadrato. Sia chiaro, non gli daremo né la terra né
gli alberi. Gli daremo solo i frutti. Dite a Herman che dovrà coglierli e
venderli. M’informerà del guadagno che ne avrà ottenuto. Prima
dell’inizio della raccolta, vi ordino di dargli una coppia di oche che
non hanno ancora iniziato a covare. Si occuperà anche della
contabilità, ma sarà libero di disporre della nidiata come vorrà. Che
cerchi ugualmente di venderle per conto suo. Vedremo cosa ne
ricaverà. Deve anche occuparsi d’ingrassare un maiale». Ma il
fattore stupito risponde che credeva che il Signor Herman fosse in
buona salute a New York. È partito da qui il 3 marzo, quando c’era
ancora la neve. Ci vuole molto tempo prima che Maria sappia,
capisca, ammetta e alla fine sia sicura che si trovi sul Highlander,
una nave mercantile che fa vela verso Liverpool. Si è arruolato come
semplice marinaio. È grazie a questo viaggio che scriverà più tardi:
Redburn.
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