Maurice – Edward Morgan Forster

SINTESI DEL LIBRO:
Una volta al trimestre il collegio al completo faceva una gita: vale a dire
che i tre maestri vi partecipavano insieme a tutti gli alunni. Di solito era una
passeggiata piacevole e i ragazzi attendevano con impazienza il gran giorno,
dimenticavano i vecchi rancori e usufruivano di una discreta libertà. Per
evitare che ci andasse di mezzo la disciplina, la gita aveva luogo
immediatamente prima delle vacanze, quando l’indulgenza non fa male a
nessuno, anzi sembrava un passatempo organizzato in famiglia piuttosto che
nella scuola, giacché la moglie del direttore, signora Abrahams, aspettava i
gitanti al luogo prescelto per il tè con alcune signore sue amiche, e li
accoglieva con affabilità materna.
Il collegio del signor Abrahams era un istituto privato di preparazione alle
medie superiori e lui lo dirigeva in base a criteri antiquati. Non dava
importanza al lavoro né agli sport, ma nutriva copiosamente i suoi ragazzi e
badava a che si comportassero bene. Per il resto, si rimetteva ai genitori senza
curarsi d’indagare in qual misura i genitori si rimettessero a lui. In mezzo a
complimenti reciproci, i ragazzi passavano in un altro istituto privato dove
avrebbero finito le medie in ottima salute ma parecchio indietro nello studio,
per ricevere le prime percosse del mondo sulla carne indifesa. Molto si può
dire in pro dell’apatia nell’insegnamento, e gli alunni del signor Abrahams
non facevano una cattiva riuscita con l’andar del tempo, diventavano genitori
a loro volta, e in alcuni casi gli affidavano i figli, Il signor Read, secondo
assistente del direttore, era un maestro del medesimo stampo, solo più stupido
di lui, mentre il signor Ducie, suo primo assistente, fungeva da stimolante e
impediva che l’intera baracca cadesse in letargo. Non godeva eccessive
simpatie, ma si capiva ch’era necessario. Il signor Ducie era infatti un buon
insegnante, ortodosso senza però perdere il contatto col mondo, e capace di
valutare i due aspetti d’una controversia. Inadatto a trattare coi genitori e con
gli allievi più ottusi, andava bene per i migliori e aveva perfino impartito
lezioni supplementari ad alcuni che si preparavano per concorrere a una borsa
di studio. E non era neppure un cattivo organizzatore: tant’è vero che il
signor Abrahams, mentre ostentava di tenere le redini e di preferire Read,
concedeva la più ampia libertà al suo primo assistente, e finì con l’assumerlo
anche come socio.
Il signor Ducie si dava sempre pensiero per questo o quest’altro. Nel caso
specifico, se ne dava per Hall, uno dei ragazzi più grandi che fra poco li
avrebbe lasciati per entrare in un istituto d’indirizzo classico. Voleva fare
«una bella chiacchierata» con Hall durante la gita. I suoi due colleghi
protestarono perché le loro mansioni sarebbero diventate più gravose, e il
direttore osservò che lui aveva già avuto un colloquio con Hall, e che il
ragazzo avrebbe preferito far l’ultima passeggiata insieme ai compagni.
Questo era probabile, ma il signor Ducie non si lasciava mai distogliere
dall’agire secondo coscienza. Sorrise e tacque. Read sapeva in che cosa
sarebbe consistita «la bella chiacchierata», giacché al principio della loro
conoscenza avevano sfiorato un certo argomento dal punto di vista
professionale, e lui aveva espresso la propria disapprovazione sentenziando:
«Terreno scabroso.» Il direttore viceversa non lo sapeva, né avrebbe
desiderato saperlo. Nel separarsi dai suoi alunni quando avevano compiuto
quattordici anni, dimenticava che si erano sviluppati e che bisognava
considerarli uomini. Gli sembravano una razza piccola ma completa, come i
pigmei della Nuova Guinea… «i miei ragazzi». Anzi, erano anche più facili
da capire dei pigmei perché non si sposavano mai e morivano di rado. Celibi
e immortali, gli sfilavano davanti in una lunga parata il cui effettivo variava
da venticinque a quaranta per volta. «Non vedo lo scopo dei libri di
pedagogia,» soleva dire. «I ragazzi cominciarono prima che fosse concepita
la pedagogia.» Il signor Ducie sorrideva, ché era intriso di evoluzione.
Passiamo ai ragazzi.
«Signor maestro, posso darle la mano…», «Signor maestro, lei mi aveva
promesso…», «Il signor Abrahams aveva tutt’e due le mani impicciate, e
anche il signor Read le aveva impicciate tutte quante…», «Uh, signor
maestro, questa è bella, ha sentito? Quello crede che il signor Read abbia tre
mani!…», «Non è vero, ho detto “le dita”. Tutta invidia, tutta invidia!»
«Quando vi deciderete a farla finita…»
«Signor maestro!»
«… vi dirò che intendo andar solo con Hall.»
Si levarono urli di disappunto. Gli altri maestri, vedendo che le proteste
non servivano a nulla, raccolsero il branco e lo convogliarono lungo la
scogliera verso le dune. Hall, tutto trionfante, saltò al fianco del signor Ducie
e s’incamminò insieme a lui, ma senza dargli la mano perché si giudicava
troppo grande per farlo. Era un bel ragazzino, grassoccio, e non aveva
assolutamente niente di speciale. In questo somigliava a suo padre, ch’era
sfilato nella parata venticinque anni prima per poi svanire in un istituto di
studi superiori, ammogliarsi, procreare tre figli, un maschio e due femmine, e
morire di polmonite poco tempo addietro. Il signor Hall era stato un buon
cittadino, ma letargico. Ducie aveva preso le debite informazioni sul conto
suo prima della passeggiata.
«Dunque, Hall, ti aspetti un predicozzo, eh?»
«Non saprei, signor maestro… il signor Abrahams me l’ha già fatto
quando mi ha regalato I sacri campi. La signora Abrahams mi ha regalato dei
gemelli. I compagni mi hanno regalato questa serie di francobolli del
Guatemala che valgono due dollari. Guardi, signor maestro, eccoli qua, sono
quelli col pappagallo in cima alla colonna.»
«Splendidi, splendidi. E che cosa ti ha detto il signor Abrahams? Che sei
un miserabile peccatore, spero.»
Il ragazzo rise. Non comprendeva il signor Ducie, ma intuiva che voleva
far dello spirito. E si sentì a suo agio perché era l’ultimo giorno di collegio, e
quand’anche avesse commesso qualche marachella non si sarebbe preso una
sgridata. Eppoi, il signor Abrahams aveva dichiarato che era stato bravissimo.
«Siamo orgogliosi di lui; ci farà onore a Sunnington»: aveva visto il principio
della lettera del direttore a sua madre. E i compagni lo avevano subissato di
regali affermando ch’era coraggioso. Che grosso errore… non era
coraggioso, lui, aveva paura del buio. Ma questo nessuno lo sapeva.
«Dunque, che cos’ha detto il signor Abrahams?» ripeté l’insegnante,
arrivati che furono alla spiaggia. Incombeva la minaccia d’uno sproloquio, e
il ragazzo rimpianse di non essere lassù sulla scogliera con gli amici, ma
sapeva che il rimpianto lascia il tempo che trova quando il fanciullo è a tu per
tu con l’uomo.
«Il signor Abrahams mi ha raccomandato d’imitare mio padre.»
«E nient’altro?»
«Ha detto che non devo mai far nulla di cui mi vergognerei se la mamma
mi vedesse mentre lo faccio. Così non c’è pericolo di sbagliare, e il collegio
dove andrò sarà differentissimo da questo.»
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