Mercato nero – Gian Mauro Costa

SINTESI DEL LIBRO:
«Che tu sia benedeo, bambinuzzo mio». La suora infermiera strinse al
peo il neonato, poi lo affidò ad Angela che gli accarezzò la testolina con
un tocco leggero e lo restituì alla culla.
«E ci mancherebbe che non fosse benedeo» sussurrò Benedeo
Mazzola, fratello di Angela, che più che voler fare uno scontato gioco di
parole, ci teneva a rimarcare l’indiscutibile appartenenza della creatura.
La polizioa lo guardò con tenerezza. Aveva sei anni più di lei quel
ragazzo robusto con i capelli bruni tra cui avevano guadagnato spazio
alcuni fili bianchi, ma da qualche tempo Angela si sentiva la sorella
maggiore. Un sentimento maturato a distanza: l’aveva perso già da
diciassee anni, quando, ventenne, Benedeo aveva lasciato casa, nel
periferico quartiere palermitano di Borgo Nuovo, per raggiungere Torino
dove era riuscito a trovarsi un’occupazione da manovale. Poi era arrivata
Annalisa, graziosa, piccola e pienoa, siciliana d’origine ma nata a
Chivasso, e per Benedeo era sbocciato l’amore e si era anche aperta,
grazie a uno zio della ragazza, la possibilità di entrare in una fabbrica di
componenti oici. Un posto di lavoro fisso, uno stipendio decente, e una
cambiale firmata sul futuro familiare. Da lì a poco, infai, il matrimonio
con Annalisa. E adesso, finalmente, dopo un dovuto temporeggiamento,
l’arrivo di un figlio.
Angela, nel fraempo, aveva seguito da Palermo, con affeo e un
pizzico di nostalgia, le vicende del fratello. Poche le occasioni d’incontro:
parsimonioso lui nel meere da parte ogni soldo guadagnato, impossibile
per lei e per i genitori (il padre schiavo del suo lavoro in panificio, quasi
senza ferie) ipotizzare un lungo spostamento dalla Sicilia a Torino. In
treno poi, perché l’aereo, per i Mazzola senior, sarebbe stata un’impresa
epica come andare su Marte.
E poi Angela aveva avuto il suo bel da fare. Prima i sacrifici per
continuare gli studi (solo grazie a un posto per famiglie bisognose in un
collegio di suore), quindi la preparazione per il concorso in polizia e il
primo, duro, periodo di gavea. Ma ora Angela era sbirra a tui gli effei
e con tui i sentimenti. Un lavoro che le piaceva, tanto da investirvi
interamente la passionalità con cui viveva ogni aspeo della sua vita, forte
di una legge personale: pretendere la verità sino in fondo, senza rinunciare
al suo istintivo senso di libertà, in nome di un’autonomia sofferta per
quanto le era costato conquistarsela.
«Che ninna nanna gli canterai a Salvatore?» chiese Angela rimarcando
con un tono di voce più alto il nome del bambino, lo stesso del nonno.
«alche ballata del Boss?».
«Magari» si schermì il fratello della polizioa. «Springsteen non lo
sento più da quando ho lasciato Palermo. Ora…» e indicò la moglie nel suo
leino d’ospedale, tua presa da un’interminabile telefonata al cellulare e
logorroica come sempre – notò Angela – nonostante le fatiche del parto.
«Al picciriddu gli toccherà poppare con le canzoni di Tiziano Ferro».
«Ah, Benedeo» sospirò la giovane agente. «Ti ricordi quei pomeriggi
in camera nostra con la colonna sonora di Radio In? ante me ne hai
fae sentire… Se oggi amo la musica è tuo merito tuo. Non sai quanto mi
aiuta nel lavoro e nelle mie serate in terrazza, all’Acquasanta. Piuosto,
quando verrai, quando verrete tui quanti a conoscere il mio lussuoso
aico con vista mare… due stanze e servizi alla modica cifra di
cinquecento euro al mese?».
«Eh sì» si fece serio Benedeo. «Lo debbo portare il bambino dai nonni,
ci mancherebbe. Vediamo… vediamo se ci riusciamo a Natale. Ma tu… con
la casa hai avuto una bella fortuna. esti prezzi, a Torino, ce li sogniamo.
Anche se la vita non è cara, sai?».
«Che vuoi… a Palermo l’Acquasanta, con tua la vista mare, è
considerato quartiere popolare. Eppure siamo a due passi da Villa Igiea… e
ci hanno fao pure il nuovo porticciolo con le barche a vela dei ricchi
accanto a quelle dei pescatori».
Salvatore volle inserirsi nella conversazione, dalla sua culla, con un
acuto.
«Minchia, la voce del nonno ha. Mi sa che è arrivato il momento di
mangiare». E Benedeo sollevò il figlioleo e lo affidò ad Annalisa che,
continuando la sua telefonata, si limitò ad abbassare una spallina e a
porgere il capezzolo al piccolo.
«Dai, vi lascio in pace. Mi faccio due passi e torno a casa».
«Hai avuto difficoltà con la serratura? Annalisa non riesce mai ad
aprire».
«No, basta non infilare la chiave sino in fondo. Noi sbirri siamo bravi
come gli scassinatori, non lo sapevi?».
«Vai, vai… vai un po’ a divertire se puoi. Nel quartiere sono spuntati
un sacco di locali, frequentati da stranieri e studenti. Fanno casino sino a
tardi…».
«E chi ha voglia di divertirsi dopo tui i bagordi che faccio a Palermo?
Sono venuta per stare con voi e anche per riposarmi un po’. Mi ero
riservata apposta questi giorni di ferie. E ne ho ancora tre a disposizione.
Ma tu quando rientri a casa?».
«Mi viene comodo per ora approfiare dell’ospitalità di sua cugina» e
indicò Annalisa. «Abita proprio a due passi da qua, lo sai. Penso a questo
punto di aspeare le dimissioni dall’ospedale. Tra un paio di giorni
dovremmo tornare tui assieme. Tu tranquilla… c’è sempre il divano
leo».
Angela salutò Benedeo, accarezzò il piccolo Salvatore e lanciò con la
mano un bacio ad Annalisa che rispose con un cenno della testa, avendo
entrambe le braccia impegnate, tra bambino e cellulare.
Appena fuori dall’ospedale guardò il cielo, ancora lontano dal tramonto,
e l’orologio, che segnava le sei. Dall’ospedale Sant’Anna a casa del fratello,
a Borgo Dora, prendendo un mezzo pubblico a corso Spezia avrebbe
impiegato una mezz’orea. Aveva tuo il tempo di bighellonare prima di
occuparsi della cena: «Magari mi compro qualcosa al volo al mercato di
Porta Palazzo».
L’autobus della linea 18 si presentò con puntualità sabauda pochi
secondi dopo il suo arrivo alla fermata. Per Angela salire su uno di quei
gentili elefanti di lamiera bianca con strisce gialle e blu era già
un’emozione. A Palermo somigliavano invece a ippopotami asmatici, con
la pelle incartapecorita dal sole. E poi prenderli era un rischio, l’aveva
sempre messa in guardia suo padre, descrivendole loschi figuri in agguato,
pronti ad allungare le mani per sfilare un borsellino o palpeggiare. Un po’
per paure infantili – anche se i pizzicoi sul sedere non se li era certo
risparmiati, a partire da quando la mandavano a comprare il lae –, un po’
perché per anni nel suo quartiere gli autobus erano stati rari come
astronavi, e in buona parte perché i tempi di percorrenza erano biblici,
Angela, insomma, poteva contare sulla punta delle dita le volte che aveva
preso un mezzo pubblico a Palermo.
Adesso sapeva bene che i loschi figuri li avrebbe potuti incontrare anche
a Torino, Pordenone o Macerata, ma non se ne dava più pensiero. Anzi,
quello di renderli inoffensivi era proprio diventato il suo lavoro. Ora non
aveva certo il desiderio di meersi in azione, e in trasferta per giunta. Si
voleva godere sino in fondo la sua prima vera vacanza in una cià così
lontana dalla Sicilia: al momento nel suo magro carnet figuravano solo un
viaggio di qualche giorno a Lipari, alla vigilia della sua entrata in ruolo, e
un paio di fugaci incombenze burocratiche al Ministero, a Roma. Le
vacanze, a casa Mazzola, erano considerate privilegio da ricchi. E quei
pochi giorni di ferie che oeneva dal panificio, suo padre li trascorreva a
dormire e a guardare la tv. Ogni tanto, ma solo ogni tanto, una gita al mare
di Sferracavallo.
Le affiorò, inconsapevole, un sorriso. Trovò posto accanto a un
finestrino, si godee la lenta ma scorrevole passeggiata guardando facce,
insegne, palazzi austeri e rassicuranti. Per un aimo ebbe l’impressione di
ritrovarsi a casa, in una Palermo meno caotica e meno colorata, nella quale
adagiarsi in una serena melanconia. L’autobus percorreva corso Regina
Margherita e, a ogni fermata, cambiava il paesaggio urbano e quello
umano. I negozi si moltiplicavano, il traffico pedonale diventava più
intenso, le lingue parlate a bordo si infiivano di nuovi accenti e suoni
misteriosi, i muri delle strade si addensavano di disegni e scrie, non tue
comprensibili. Decise di scendere un paio di fermate prima, all’altezza di
corso XI Febbraio, per raggiungere con calma Porta Palazzo e quindi casa
del fratello. Nonostante si muovesse a passo lento aveva ugualmente la
sensazione di ritmare con i suoi stivalei un tip tap sul marciapiede. No,
decisamente non si trovava a Palermo. La stessa scia di immondizia che
accompagnava la fila di bancarelle in disarmo a fine giornata aveva
logiche, geometrie, odori diversi. Sì, gli odori. Non c’era nulla di
quell’afrore di umidità stantia, di olii esausti da mille friure, di agrumi
marci e pesce stremato dal sole che avvertiva nei vicoli del centro storico
che circondavano la sua questura. i prevaleva il sentore di carni
macellate, di spezie sconosciute, di farine e legumi, misto a quello delle
pelli e del cotone, in un bazar di bancarelle e boeghe. Sarebbe stata una
passeggiata stimolante per Stella, pensò Angela.
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