L’ultimo bacio in qualsiasi modo e a qualsiasi costo – Alessia D’Oria

SINTESI DEL LIBRO:
Angela continuava ad ammirare dubbiosa il suo riflesso allo specchio.
L’abito corto che la fasciava nei punti giusti le era stato cucito dalla sarta
migliore della città. Donna Assunta, una madre che si preoccupava
esclusivamente dell’immagine della loro famiglia, glielo aveva regalato per
quell’occasione: la festa organizzata da Immacolata Russo, figlia di un noto
imprenditore, nella sua sontuosa e impeccabile villa.
La ragazza era una compagna di scuola della figlia e quella sera
festeggiava il suo diciottesimo compleanno. Angela era stata invitata, non
tanto perché fossero amiche, ma perché il cognome che portava era
un’etichetta pesante da gestire, ma che le dava libero accesso ovunque.
L’abito era delicato, raffinato ed elegante e la stoffa era morbida, setosa e
pregiata.
Angela era una ragazza dalla bellezza disarmante: aveva degli occhi scuri
e caldi come il whisky, una chioma liscia e luminosa che aveva lo stesso
colore di una castagna, una carnagione delicata e chiara, delle labbra
carnose e un sorriso angelico. Era fine ed elegante, ben educata e sicura del
suo posto nel mondo. Anche se tutte le notti malediceva il cognome che
portava.
Nessuno osava contraddirla, nessuno osava mostrare una sola punta di
antipatia nei suoi confronti, nessuno la disdegnava, nessuno si permetteva
di offenderla. Tutti temevano lei e la famiglia mafiosa di cui faceva parte.
Era figlia dell’intoccabile e rispettabile Carmine Sorrentino, e purtroppo
quella parte della sua vita non sarebbe mai potuta cambiare.
«Sei un incanto», mormorò donna Assunta, mentre ammirava
compiaciuta il fisico minuto ed esile di sua figlia intrappolato in quella
stoffa color cipria.
«Sono certa che tutte le ragazze della festa saranno invidiose», osservò
perfida la donna.
Angela la fulminò con lo sguardo: «Non voglio che mi guardino
invidiose, mamma».
La madre alzò gli occhi al cielo con fare teatrale, disapprovando l’umiltà
e la compostezza della figlia, poi uscì dalla sua stanza ancheggiando con
grazia sui tacchi altissimi.
Angela si tolse la collana di perle che aveva al collo: tutti sapevano dei
suoi gioielli, della macchina che le sarebbe stata regalata al suo diciottesimo
compleanno, degli abiti firmati e costosi che aveva nell’armadio, della villa
ai piedi del Vesuvio in cui abitava. Odiava sfoggiare la sua ricchezza, e
trovava ridicolo che la madre potesse pensare che qualcuno l’avrebbe
guardata in modo invidioso. Perché dietro il sorriso cordiale e l’apparente
gentilezza che i ragazzi della sua età le mostravano, si nascondeva solo la
vergogna. La stessa che provava lei per la sua famiglia, e anche per se
stessa. Solo un folle avrebbe potuto essere invidioso delle sue cose, perché
non erano guadagnate con sacrificio e sudore, ma con l’inganno, la truffa….
E il sangue.
Gli occhi della ragazza cominciarono a inumidirsi. Cercò di mantenere la
calma e di ricomporsi, perché era certa che tra cinque mesi, quando avrebbe
finalmente compiuto diciotto anni, la sua famiglia le avrebbe depositato una
somma di denaro ingente sul suo conto corrente già stracolmo, e quando
avrebbe avuto finalmente la libertà di poter usufruirne, sarebbe scappata via
dalla sua famiglia e da quella città. Sarebbe andata a studiare altrove e
avrebbe cercato di rifarsi una vita lì dove nessuno conosceva suo padre, lì
dove poteva essere amata o odiata per quello che era realmente.
Angela osservò per un’ultima volta lo specchio, poi un sorriso amaro
fece capolino sul suo volto: era ridicolo preoccuparsi del suo aspetto,
perché mai nessun ragazzo si sarebbe avvicinato a lei. Tutti temevano che il
fratello Antonio avrebbe estratto la glock che aveva nella tasca posteriore
dei jeans e che gliel’avrebbe puntata alle tempie solo per il gusto di
mostrargli l’arma da fuoco che aveva con sé. Antonio non uccideva solo
perché non poteva dare nell’occhio mettendo a repentaglio l’azienda di
famiglia che era solo una copertura. Anche se tutta Napoli sapeva che le
ville, le auto e lo stile di vita cui erano soliti seguire, non erano frutto di una
semplice azienda importante a cui gli affari andavano discretamente bene.
Dietro c’era dell’altro, ma nessuno osava intromettersi in faccende mafiose.
Angela salì sui suoi tacchi Louboutin, che la resero più alta e più
slanciata all’istante. Le gambe alte e nude, ancora dorate per via dell’estate
appena conclusa, erano messe ancora più in risalto. Prese la sua pochette
che costava mezzo stipendio dei padri delle sue compagne, e si incamminò
verso il salone, dove la attendeva il padre. Ondeggiava con grazia su quei
tacchi dodici, come se fosse a piedi nudi. Aveva solo diciassette anni, ma
aveva dovuto prendere parte a tante cerimonie importanti, e la madre
adorava agghindarla in quel modo, per sfoggiare l’autentica bellezza della
figlia, stratosferica e ammaliante rispetto le altre figlie dei camorristi o degli
uomini al loro servizio.
Angela raggiunse il salone, dove il padre era comodamente seduto sulla
sua poltrona. Quando la vide, alzò lo sguardo dalla televisione e le sorrise
amabile. Carmine Sorrentino accettava che la gente morisse per avere tutti i
soldi che voleva. Ma guai a chi osava toccare la sua figlia meravigliosa, che
amava più della sua stessa vita.
«Nennè, sei bellissima» commentò il padre quando la vide splendere al
centro del salotto.
«Forse il vestito è un po’ corto, però», obiettò quando la figlia lo
raggiunse per baciarlo sulla guancia.
«Non cominciare. Deve andare alla festa della figlia di Russo. Non hanno
voluto scendere a compromessi con te, ricordi? È divertente ricordargli che
hanno fatto male. Quella scorfana della figlia può solo sognarselo un vestito
così», mormorò donna Assunta facendo il suo ingresso.
«Se la metti su questo piano…», disse il marito sghignazzando.
All’improvviso cominciò a tossire, conseguenza di tutti i sigari che
fumava da quando aveva solo dodici anni.
Angela li guardava a disagio, sentendosi come sempre l’arma che
utilizzava la madre con il solo scopo di far invidia alla gente. Non era
orgoglio materno.
Era orgogliosa dei suoi soldi, del potere del marito, dell’oro che aveva in
cassaforte, delle vacanze a Dubai, dei fine settimana a Capri, ma non di sua
figlia. La stessa che sgobbava sui libri ore e ore al giorno, la stessa che
fingeva di amarli e adorarli, quando dentro lei non provava altro che pena
per i suoi genitori, e per quel suo fratello maggiore di due anni, che
sguazzava in quello schifo felice e soddisfatto.
«Io devo andare», mormorò Angela per porre fine a quella discussione
melensa, in cui si sentiva un oggetto, e non una figlia che doveva salutare i
genitori prima di uscire.
«Ciro ti sta già aspettando per accompagnarti, a’ papà», disse il padre
mentre le prendeva la mano e la baciava. Angela chiuse gli occhi e deglutì a
fatica. Era arrivata al punto di odiare il solo tocco del padre, perché sapeva
che quelle mani avevano ammazzato senza pietà chi adesso non può più
salutare le figlie prima che escano. Cercando di non dare nell’occhio,
Angela ritrasse la mano, si avvicinò alla madre e le porse la guancia, che lei
baciò con meno adorazione del padre.
«Ti accompagno alla porta», disse. Angela annuì e la seguì per il lungo
corridoio ben arredato, fino a giungere all’ingresso.
«La macchina di Ciro ti aspetta qui fuori. Verrà a riprenderti al solito
orario».
Non aggiunse altro. Né un “divertiti”, né uno “sta’ attenta”, né uno
“scrivimi ogni tanto per farmi stare tranquilla”. Conosceva quei messaggi,
non perché lei li avesse mai ricevuti, ma perché li leggeva sui cellulari
economici della migliore amica Maria e di altre sue compagne. Angela
annuì sconfortata e fece per voltarsi. Poi si bloccò.
«Non manderete Antonio a controllarmi, vero?», chiese alla madre
cercando di mantenere un tono calmo e pacato. La madre rise, un suono
così stridulo e fastidioso.
«No, ma solo perché stasera ha delle commissioni da sbrigare per conto
di tuo padre».
Angela trasalì sentendo quelle parole. Poteva già immaginare che
“genere” di commissioni dovesse sbrigare il fratello: controllare che il
montacarichi di droga arrivasse al posto giusto al momento giusto, oppure
andare a minacciare qualcuno di morte, oppure andare a spaventare qualche
componente di quel clan che tanto odiavano. Non conosceva molto bene gli
affari del padre, ma molto spesso lo aveva sentito nominare con sprezzo il
cognome “De Luca”, invocando la loro morte e premeditando di mandarli
in malora. A tavola non erano soliti parlare di come era andata a scuola, di
cosa avrebbero fatto quel giorno, dei loro sogni o delle loro ambizioni. Si
parlava di affari. O meglio, quella era la definizione che davano ai loro
misfatti.
Accompagnata da quei lugubri pensieri che le attanagliavano il cervello
da circa due anni, da quando aveva scoperto di più sul conto della sua stessa
famiglia, Angela salì in macchina.
Ciro era l’autista della famiglia, ma in particolare, era il suo autista. Era
un ragazzo giovane, aveva solo ventisette anni, e la sua unica colpa era
quella di essersi imbattuto per sbaglio nella famiglia Sorrentino, a cui
doveva molti soldi per conto di sua madre, la quale nella disperazione
cominciò a chiedere soldi a don Carmine, che non si tirava certo indietro
dal fare l’usuraio per hobby. La madre di Ciro, però, si ritrovò senza più un
centesimo, e il ragazzo per cercare di salvare la madre dalla morte che
probabilmente le sarebbe aspettata se non avesse restituito in tempo tutti i
soldi che doveva a quell’uomo spietato, cominciò a lavorare per lui. Aveva
rinunciato a tutto: agli studi, alla fidanzata che aveva allora, al calcio, alla
pace e alla tranquillità, alla possibilità di avere una vita serena in futuro. Era
ormai un loro servo, un uomo di Sorrentino, e non se ne sarebbe mai più
potuto liberare.
«Ciao, Cì», lo salutò Angela. Adorava quel ragazzo che conosceva da
ben dieci anni. In un certo senso, era come se fosse il suo vero fratello. Con
lui poteva parlare, svelarsi, sfogarsi, esprimere il suo dissenso nei confronti
della famiglia, rivelare il ragazzo che le piaceva, farlo partecipe dei suoi
piani e dei suoi progetti per il futuro. Ciro era un ragazzo intelligente,
buono, gentile. Non c’entrava nulla con tutto quello schifo. Era caduto in
una fossa di leoni, e Angela pregava e sperava per lui un futuro migliore. Il
futuro che si meritava.
«Ciao, gnocca», rispose il ragazzo. Era il nomignolo che le aveva dato
quando era una bambina. Sapeva che adesso che era quasi una donna, un
nomignolo del genere sarebbe potuto apparire ambiguo, ma sapeva che
Angela era una ragazza tenera, ingenua e innocente, e non avrebbe mai dato
un doppio significato a quel dolce appellativo che ricordava ben dieci anni,
quando lei ne aveva solo sette appena compiuti. Era sempre stato lui ad
accompagnarla a scuola, a casa delle amichette, al corso di danza, alle feste,
e non gli pesava affatto. Tutt’altro: Ciro la amava come se fosse davvero la
sua sorellina. Così come Angela sperava per lui un avvenire dignitoso, lo
stesso sperava lui per lei. Con la sola differenza che lui poteva star ben
certo che don Carmine non le avrebbe mai permesso di vivere la sua vita
come voleva. E sapeva che ben presto avrebbe fatto i suoi piani per
scegliere il fidanzato e futuro sposo della povera ragazza. Erano destinati a
quella vita, ed entrambi, per quanto non volessero ammetterlo nemmeno a
loro stessi, lo sapevano benissimo.
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