L’ultima scommessa – Gian Mauro Costa

SINTESI DEL LIBRO:
È arrivato Zagor… Enzo Baiamonte aprì le imposte, socchiuse gli occhi
alla luce livida di un’alba ritardata, e si ritrovò a Venezia. Niente gondole,
però. Solo quaro canoi di plastica. E niente romantiche canzoni di
rematori. Al loro posto, la tiritera delle imprecazioni. L’acqua, beh, quella
almeno era simile. Torbida l’una e torbida l’altra. Insomma, fituse tue e
due. Con l’unica differenza che la prima era fruo delle porcherie scaricate
a mare, la seconda dell’impasto di fango e liquame venuto fuori dalle
viscere della cià.
L’imprecazione che Enzo stava per lanciare fu ricacciata indietro da
un’impressionante scarica di fulmini e puntuale, roboante, commento di
tuoni: «Arrivò Zagor» si limitò quindi a ribadire soovoce l’investigatore,
cui non difeava la cultura fumeistica. Zagor, «lo spirito della scure»,
amava infai apparire nello scenografico contorno di tempeste, bufere e
alluvioni. In effei, proprio di una specie di alluvione si traava. E
ricorrente, per giunta, senza che l’amministrazione comunale riuscisse a
porvi rimedio. In quella zona di Palermo, se un temporale durava più di
mezz’ora, le acque dei fiumi Papireto e Kemonia, da tempo soerrati,
salivano a prendere una boccata d’aria mescolandosi agli scarichi intasati
delle fognature, e inondavano la depressione del terreno al confine tra i
quartieri Zisa e Danisinni. La parte bassa di via Imera, così, si trasformava
in un miserabile Canal Grande. La cerimonia del Bucintoro era sostituita
dalla processione di commercianti esasperati che cercavano di meere in
salvo le loro mercanzie stipandole in ogni genere di contenitore
galleggiante. Le auto semisommerse accennavano movenze da nuoto
sincronizzato e gli abitanti della zona vi riversavano le loro maledizioni. alche ragazzino particolarmente disgraziato, poi, si divertiva a
sguazzarci dentro, rischiando la polmonite e più di tuo peste e colera.
Baiamonte era al riparo da tuo ciò. La Venezia in formato inferno
dantesco si creava a qualche decina di metri dal suo palazzo, là dove
cominciavano i Danisinni. Li intravedeva dalla finestra della camera da
leo: un quartiere abbandonato da Dio e anche dagli uomini da quando un
omone che si chiamava Danilo Dolci, venuto dal Nord, aveva tentato
l’impossibile: dare cultura alla gente del posto ed estrarre sangue dalle
rape della politica.
Da allora, lo scenario non era cambiato di molto. Erano state spostate le
montagne di terra e detriti che facevano da tappo fra i due quartieri, ed era
nato uno stradone che, sfidando due o tre leggi della fisica, scimmioava
le montagne russe. Con il risultato appena offerto alla vista di Baiamonte,
dopo una noe di pioggia come quella appena trascorsa. Non che a lui
dispiacesse del tuo, in fin dei conti, girarsi e rigirarsi nel leo
accompagnato dal ticcheìo isterico dei goccioloni sulle imposte: gli
sembrava di resistere dentro il suo fortino agli assalti petulanti del mondo,
alle intemperie frenetiche della realtà. Gli bastava infilare l’elmeo di lana,
sempre pronto sul comodino, per sconfiggere le armate degli spifferi
minacciosi di una casa, come tue quelle costruite a Palermo prima degli
anni sessanta, rigorosamente priva di termosifoni.
A meere duramente alla prova questo Baiamonte in pantofole e
papalina non erano dunque né acquazzoni né Zagor ma l’altro Baiamonte,
quello che, una volta chiusa la sua boega di elerotecnico, aveva
accarezzato sempre più il sogno giovanile di fare l’investigatore. E alla
fine, per una serie di circostanze meritorie ma anche fortunate, c’era
riuscito. Adesso poteva fregiarsi di un patentino da detective
professionista, con tanto di autorizzazione della questura al porto delle
armi. L’acquisto di una pistola era stato però rimandato a tempo
indeterminato: l’idea di maneggiare uno strumento diverso da una
macchina fotografica o un cacciavite lo meeva in stato di agitazione. La
stessa agitazione che gli aveva appena fao trascorrere una noe insonne.
Enzo era consapevole della necessità di darsi una mossa, di meersi a
pedalare sulla biciclea a lungo desiderata. Doveva trovarsi un caso da
seguire, insomma. Se non proprio una vicenda degna di un giornalino a
fumei, almeno un’investigazione che gli facesse sbarcare il lunario. O
quantomeno rimpinguare, oltre il livello di sicurezza, il suo conto corrente
foraggiato mensilmente da una pensioncina da artigiano e dagli introiti dei
lavori occasionali come elericista o tecnico del suono.
Ma un po’ l’indolenza congenita, un po’ il timore ancora non superato
di imbaersi in qualcosa di più grande di lui, sia per pericolosità sia per
capacità, lo avevano sinora paralizzato. Per creare almeno la parvenza di
un ufficio, in aesa di tempi migliori, aveva intanto arezzato in modo più
consono il saloo di casa dove si trovava la vecchia scrivania di suo padre,
e messo ordine nei cassei rigurgitanti di chiodi, transistor, circuiti
elerici, tenaglie e morsei, nonché collezioni di figurine di calciatori,
bigliei da visita di ogni tipo, scontrini e manuali. Si era ripromesso di
infrangere il suo tabù nei confronti del computer e nel fraempo aveva
piazzato sullo scrioio un taccuino, un tagliacarte («che faceva tono»),
penne, matite, una lente d’ingrandimento (accessorio da manuale, aveva
pensato, ma che poteva fargli comodo per leggere il corpo 8 delle pagine
sportive e di cronaca) e un telefono cordless dal quale fantasticava di poter
rispondere, un giorno, come in un film americano: «i la Baiamonte
investigazioni, i nostri detective sono a vostra disposizione…».
Ma per il momento si accontentava di conversare con la salumeria, i
suoi amici di scopone e con la sua… beh, fidanzata, come altro chiamarla,
Rosa, la sarta che aveva poi dato un contributo decisivo al suo passaggio
dai ranghi di dileante a quelli di professionista.
«Ci vuole un po’ di reclàm» gli ricordava periodicamente lei. «Oggi non
si fa più niente senza pubblicità» ribadiva, e gli consigliava di farsi vedere
più spesso in questura dal marito di sua cugina, il polizioo Filippo
Inguaggiato, che aveva preso a cuore Baiamonte avendo avuto già modo di
saggiare sul campo il suo acume: «Filippo, vedrai, qualcosa te la trova.
Mica gli sbirri si possono occupare di tuo».
«Sì, certo» brontolava in quei momenti Enzo. «Di sicuro gli sbirri non si
occupano di tuo. Che fa, ora mi chiama il questore e mi dice: caro
Baiamonte, abbiamo bisogno di lei. Non è che ci può risolvere qualche
punto ancora oscuro della strage di via D’Amelio? Sa, i miei agenti hanno
così tanto da fare… E magari, se nel fraempo le capita di trovare Messina
Denaro, ce lo potrebbe fare uno squillo? Le sarei molto riconoscente…».
E lasciando stare questi casi, rimuginava Enzo, cos’altro può passare il
convento? Rapine irrisolte, furtarelli nei supermercati o negli
appartamenti, scippi a turisti… tua roba per la quale le viime non
avrebbero certo pagato un investigatore privato. E i grandi centri
commerciali, casomai, avrebbero sguinzagliato il proprio personale di
sorveglianza. Cosa restava allora nell’ambito delle sue possibilità? Le solite
storie di corna e pedinamenti, il recupero di debiti presso qualche
disgraziato in rovina… No, sulla prima categoria, quella sulla quale aveva
già lavorato da dileante per il lercio avvocato Marziano, era stata
abbassata una saracinesca definitiva. E per quel che riguardava i debiti, in
tempi di crisi poi, Baiamonte sapeva come sarebbe andata a finire: avrebbe
simpatizzato con gli insolventi e avrebbe magari collaborato con loro per
lasciare con un palmo di naso creditori e strozzini.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo