L’ultima notte al mondo – Bianca Marconero

SINTESI DEL LIBRO:
Marco, tanto per cominciare
Tanto per cominciare, la sveglia non ha suonato.
Niente di personale, la sfiga non lo è mai, ma pur sempre un fatto.
Ora sono in ritardo.
Cerco di passare da “REM” a “stato di veglia” in un nanosecondo e, una volta
fuori dal letto, mi accorgo di essere su un campo di battaglia. C’è biancheria
dappertutto. Come se ci fossimo spogliati in diciotto. In realtà eravamo due,
anche se la mia tipa, ieri sera, valeva per quattro.
Si chiamava Sonia.
O Sandra?
Con la S comunque.
Rovisto tra gli indumenti e, no, questo reggiseno, chiaramente, non è mio.
Sono carponi, nel misterioso mare della biancheria che si estende su tutto il
soppalco, la cui superficie coincide con la mia camera da letto, quando sento un
guaito sottile. È Ringhio, il mezzo schnauzer del mio amico Gianluca. Il cane
vive da me quando il suo proprietario è in trasferta. Cosa che succede spesso,
visto che Gianluca fa reportage dalle zone di guerra, e di guerre è pieno il
mondo.
Ringhio scodinzola, con la pancia bassa, poi mi salta addosso.
Mi azzanna il bordo della maglietta, tira e strattona. Il maledetto non molla e me
la buca.
A causa sua ho buttato una mezza dozzina di t-shirt e ho perso un paio di
amiche. Ma le prime si ricomprano e le seconde, be’, quando Ringhio sta da me
io e lui siamo un pacchetto completo. Se vuoi uno, prendi l’altro.
Altrimenti tanti saluti.
Per dirla tutta, “tanti saluti” è l’epilogo che va per la maggiore da queste parti.
Mai stato uno di quelli che crede nel secondo appuntamento. Non vedo perché
sprecare la fortunata circostanza biologica per cui il rapporto femmine e maschi,
sul pianeta, è sette a uno! E non vedo perché investire su qualcuno, dal momento
che l’amore trova sempre il modo di fregarci.
Spingo lontano il cane ninja, trovo i pantaloni e squilla il telefono. Mi guardo
intorno, nella mia casa senza muri, cercando di capire da dove diavolo venga la
suoneria.
Poi vedo Ringhio che trotta verso di me. Il portamento fiero e il cellulare in
bocca. Non so come spiegare a quel cane che i telefoni non si mangiano.
bocca. Non so come spiegare a quel cane che i telefoni non si mangiano.
Sono cancerogeni.
Nonostante lo schermo sbavato, leggo un nome. Se non è l’ultimo che vorrei
vedere è solo perché non merita neppure un posto in classifica: Aldebrando
Minetti, il direttore di produzione di alcuni programmi di Retelibera, l’emittente
privata in cui lavoro come tecnico. O schiavo, fate voi.
«Minetti!».
«Riccio! Dove cazzo sei?»
«Minetti, credimi: posso spiegarti», tento di giustificarmi mentre provo a infilare
i pantaloni.
«Riccio, dimmi che stai arrivando! Dimmi che sei già con il culo sulla porta
dell’ufficio, altrimenti…».
«Io… ci sono quasi», mento infilandomi i calzini. Sono diversi, ma non mi
formalizzo.
Minetti urla un insulto. «Forse non ti rendi conto di chi intervistiamo oggi?!».
Cerco nel cervello, settore per settore, e naturalmente non mi ricordo. Le
trasmissioni di Minetti sono immondizia: Città Che Conta, Persone e
Personalità e una serie di schifezze con protagonisti i benemeriti di questa città.
«Ci sei ancora?»
«Sì, è solo che…».
«Allora, lo sai chi intervistiamo oggi?».
Ovvio che non lo so.
Allontano il telefono e lo avvicino a scatti mentre comincio a parlare e soffiare
nel ricevitore.
«No… ti sen… credo… interf…».
E poi riattacco. «Conversazione noiosa, comunque».
Mi infilo qualcosa di verde sopra. Non sono un maniaco degli abbinamenti.
Glenda di Glitter Glenda, il contenitore della rete dedicato alle tendenze, dice
che il jeans è puttana e va con tutti. Quindi anche con il verde. E verde è
coordinato con almeno una delle mie calze.
Sono un dio della moda.
Mando un saluto a Ringhio e, ohi, per poco non mi ammazzo.
C’è una barricata di immondizia davanti alla porta. A ricordarmi che, sì, mi sono
scordato di buttarla. E poi bicchieri e bottiglie. Come abbiamo fatto io e Ragazza
Che Inizia Con la S a fare un simile macello resterà un mistero.
Il loft è distrutto.
Un attimo.
Loft forse evoca il contesto sbagliato. L’open space in cui vivo non si trova in un
Loft forse evoca il contesto sbagliato. L’open space in cui vivo non si trova in un
attico fico, o in uno sciccoso edificio riqualificato.
Io vivo in un’ex fabbrica.
Da fuori casa mia è un capannone, uno come tanti della zona industriale di
Borgo Panigale, Bologna.
Non ho la vista sui portici dell’Archiginnasio, ma sugli stabilimenti della Ducati.
E non è che mi senta uno sfigato, perché vivo con quello che ho, e da cinque
anni ho solo me stesso e un cane in prestito.
L’importante è potersi guardare allo specchio senza abbassare lo sguardo e, se si
parla di case, è la bellezza interiore quella che conta.
Salgo sulla Vespa, il tempo di girare la chiave e il motore languisce. Sono a
corto di miscela.
Okay, niente panico. Passo al piano B. Agguanto la bici fissata con il catenaccio
alle tubature esterne. Ma ecco.
Solito problema.
La combinazione del lucchetto.
Guardo l’arnese e so già di essermi dimenticato come si apre. Eppure l’avevo
scritto da qualche parte. Solo che non mi ricordo dove.
Forse sulle mutande di S.
Questa giornata si preannuncia un casino.
Metto in atto il Piano C. Corro alla fermata dell’autobus come se non ci fosse un
domani.
Se ritardo ancora, probabilmente per me non ci sarà.
I risvegli di Marianna
Sono in piedi da ore. Non volevo avere la faccia di una che si è appena svegliata.
Non la voglio in generale e a maggior ragione oggi che inizio il praticantato. La
scelta del vestito si è ridotta a un ballottaggio tra il completo verde bottiglia di
Gucci e il tailleur beige di Marc Jacobs, quello che il mese scorso gridava: “Ti
prego, comprami” e che io ho accontentato, per non vederlo soffrire. Alla fine è
stata la borsa a scegliere. La mia Kelly non si può proprio portare con il verde.
Ai piedi, scarpe basse. Opto per le slingback mezzo tacco, sperando mi portino
fortuna.
Scendo la scala e ci sono due persone: Marita, la colf, e Lucrezia Visconti, mia
madre. Mia madre è un trattato di eleganza: capelli biondi e corpo filiforme,
indossa un twin set di cashmere e una gonna al ginocchio dai toni pastello, mi
fissa come fossi una debuttante al galà di Vienna.
«Sembri una dea».
Non credo che le divinità calzino un mezzo tacco, ma sorrido. Perché sorridere è
quello che faccio sempre. È la risposta universale agli input sociali.
«Ho alcuni dubbi sull’acconciatura», ammetto e mi tocco lo chignon. «Marita è
stata bravissima, ma forse è un po’, come dire, “austera”».
Mia madre fa un cenno affinché io la raggiunga. Quindi mi fa girare su me
stessa.
«È chic», decreta, «francesissima, quindi perfetta».
La mamma tiene in grande considerazione la Francia e tutto ciò che proviene da
lì.
Marita, una donnina rotondissima e piccina, contempla il risultato
dell’acconciatura con i suoi occhi neri e gentili, mentre si sistema sotto la cuffia i
capelli, ricci come fusilli. Marita è con la mia famiglia da quando papà lavorava
all’ambasciata di Manila. La mamma dice sempre di essersela portata a casa,
come si fa con i souvenir. Si scambiano uno sguardo complice.
«La signorina ha sempre avuto i capelli di un angelo», dice Marita e mentre
pronuncia le parole il suo sguardo sembra velarsi di commozione.
Intuire quelle lacrime di gioia mi mette voglia di piangere.
Chiaro che non lo faccio. Trattenersi è come sorridere. Un imperativo sociale.
E poi non è detto che avrei il tempo di rifarmi il trucco.
E poi non è detto che avrei il tempo di rifarmi il trucco.
«Eri una bimba. Soltanto un minuto fa», dice mia madre. Marita si afferra il
lembo del grembiule immacolato, un gesto da ragazzina sopraffatta. Ora, infatti,
sta piangendo sul serio.
Resto a sostenere il peso della loro commozione con un certo stoicismo.
«Ma la signorina dovrà fare colazione. O sviene, il primo giorno di lavoro».
«Svenire?», chiede mia madre, accantonando in un lampo tutta la nostalgia.
«Santo cielo, che sciocchezza, non si prendono una laurea in tempo record e un
master a Harvard, per poi svenire».
È contraria agli svenimenti, ma concorda sul fatto che dobbiamo fare colazione,
pertanto mi precede nel salottino.
«Vorrei solo che Luca ti vedesse», recita.
Per fortuna, cammina davanti a me. Così mi risparmio il sorriso. Stavolta non
riuscirei a farlo sembrare credibile.
Mi ripeto di far finta di nulla.
Devo reggere questa farsa finché le cose non si sistemeranno.
E poco ma sicuro che si sistemeranno.
«Giacomo!», chiama la mamma entrando nel salottino, una veranda esagonale
affacciata sul giardino. «Riconosci questa elegantissima signorina?»
«Mamma, per favore. Certo che papà mi riconosce».
Lui, capelli grigi e soffici come neve, occhi grigi e camicia grigia, in pendant per
diktat di mia madre, si aggiusta gli occhiali, si alza educatamente dal tavolo della
colazione e attende che io e mamma ci accomodiamo.
«A essere sinceri», esordisce, dopo essersi seduto anche lui, «la settimana
scorsa, quando ti siamo venuti a prendere all’aeroporto, ho avuto qualche
difficoltà a convincermi che tu fossi la stessa persona che avevo visto per Natale,
a Boston».
«Quest’ultimo anno negli Stati Uniti ti ha fatto sbocciare», gli fa eco la mamma,
ispirata dalla propria retorica.
«Sono d’accordo», decreta Giacomo Visconti, afferrando la teiera d’argento e
prendendo a versare il tè nella tazza in porcellana rosa.
«Un anno di attesa e ora il dono di avere tra noi una giovane donna», ricomincia
la mamma. «Anche Ginetto, dopo averti vista mercoledì, alla serata dei
Torregiani Sezzi, mi ha detto, testuali parole: “Lucrezia, amica mia, da non
credere come la tua bambina sia cambiata”, e tu sai, mia cara, che Ginetto dice
esclusivamente cose sensate».
«Solo cose sensate», sottoscrive papà. Ma poi cerca il mio sguardo e scorgo un
lampo di divertimento nei suoi occhi trasparenti. Un attimo dopo papà nasconde
sguardo e opinioni dietro alla tazza di tè.
sguardo e opinioni dietro alla tazza di tè.
«Il signor Ginetto è sempre stato molto gentile con me», riconosco.
«E si è confermata la persona squisita che credevamo», ritorna alla carica la
mamma. «Ti ha permesso di fare il praticantato da lui».
«In attesa dell’esame di stato», mi rammenta papà. E su quelle parole marito e
moglie portano lo sguardo sulla loro unica figlia.
Cioè io.
Un lampo di orgoglio e aspettativa. I sentimenti di una sono, ora, lo specchio di
quelli dell’altro. Fieri. Allineati.
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