L’ultima intervista – Eshkol Nevo

SINTESI DEL LIBRO:
No. Ma a un certo punto, durante l’adolescenza, mi sono reso
conto che le mie fantasie masturbatorie erano molto piú dettagliate
di quelle dei miei amici intimi. Le loro andavano dritto al sodo, come
un’istantanea. Nelle mie c’erano ostacoli, conflitti, figure a tutto
tondo. Dovevo credere alle mie fantasie, per eccitarmi. Perciò
approfondivo i minimi dettagli. Mi ricordo una notte, quattro amici per
la pelle a dormire in sacchi a pelo nel seminterrato della casa di
Hagai Carmeli a Ramot, e ciascuno raccontava la sua fantasia. Io
ero l’ultimo, e quando ho finito di parlare si erano addormentati tutti,
tranne Ari, che prima di chiudere definitivamente la zip del sacco a
pelo ha commentato con voce assonnata: fratello, secondo me farai
lo scrittore. Ma devi imparare a stringere.
Cosa la spinge a scrivere?
La maestra Meira ci aveva assegnato, come compito per le
vacanze, di tenere un diario. Io mi ero portato un quaderno a Ras
Burqa, nel Sinai, e di tanto in tanto salivo su una collinetta e scrivevo
del mondo sott’acqua e del mondo in superficie.
In seguito i miei genitori hanno deciso di spostarsi da
Gerusalemme a Haifa. Ho composto, allora, qualche poesia di
ribellione contro il trasferimento ma, come spesso capita con le rime
di rivolta, non è servito a niente.
Poi l’ultimo anno di liceo abbiamo organizzato uno spettacolo di
fine anno e Tali Leshem suonava il flauto traverso. Volevo starle
intorno il piú possibile nella speranza che mi notasse, ma non ero
bravo a far niente, né a suonare, né a cantare, né a ballare. Perciò
mi sono offerto di scrivere i testi delle canzoni dello spettacolo.
Durante il servizio militare spedivo lettere a Tali. Pensavo che se
avesse ricevuto una mia lettera ogni giorno, non mi avrebbe lasciato
per un altro che tornava piú spesso in licenza.
Dal Sudamerica, dopo il congedo, mandavo lettere a Dikla. A
volte le raccontavo episodi avvenuti durante il viaggio, altre
inventavo cose mai successe. Mi sono accorto che era piú piacevole
scrivere le cose mai successe.
Dikla e io ci siamo lasciati appena prima che partecipassi al mio
primo seminario di scrittura creativa, subito dopo la laurea, e tutte le
parole che mi sono venute fuori in quell’occasione, e forse sempre
da allora, rappresentavano un tentativo di riempire l’enorme vuoto
lasciato dal suo abbandono.
Dopo un anno, Dikla e io siamo tornati insieme.
In seguito ho fatto alcune scelte fondamentali: matrimonio. Figli.
Un mutuo.
La vita ha imboccato un sentiero troppo stretto, e la scrittura era
l’unica cosa che mi permetteva di spaziare.
La vita che non potevo vivere la scrivevo. Per qualche anno ha
funzionato, anestetizzava il mio struggimento, ma poi Ari si è
ammalato. E Shira si è trasferita in collegio. E Dikla ha smesso di
trovare in me la sua felicità.
È cominciato un periodo un po’ cosí.
Mi pare che la chiamino crisi. Immaginavo che sarebbe passata
nel giro di qualche mese, ma sbagliavo.
Dal di fuori non si vede, ma io lo so che sto affondando. So che
adesso scrivo per salvarmi.
Come descriverebbe la sua giornata lavorativa?
Da un anno ormai conduco una guerra senza quartiere, una vera
e propria guerra di logoramento, contro la distimia: un disturbo grave
del tono dell’umore, caratterizzato da una prostrazione cronica,
persistente, subdola. In parole povere: un tempo mi alzavo felice e
oggi mi alzo triste. Non sono certo di sapere il perché, né ho idea di
come uscirne. Non sono neanche certo di quanto tempo Dikla potrà
resistere. Ultimamente sento che mi tiene alla larga. Forse ha paura
di un contagio.
Comunque, la mia mattinata comincia sempre con un’attività fisica
aerobica, corsa o bicicletta, mirata a stimolare la produzione delle
sostanze che danno il buonumore. Dopodiché telefono ad Ari e
parliamo della nostra squadra di basket del cuore, l’Hapoel
Gerusalemme, delle infermiere del suo reparto, della possibilità che
gli Shabak Samech tornino a suonare insieme, insomma, di tutto
tranne che della sua malattia. La chiacchierata dovrebbe servire a
risollevare il morale a lui, ma lo risolleva anche a me, e mitiga
leggermente l’acuto senso di solitudine. Poi mi appisolo un pochino,
mi risveglio, bevo due tazze di caffè una via l’altra, mi spazzolo
un’intera tavoletta di cioccolata e accendo il computer, come se fossi
seriamente intenzionato a scrivere il prossimo romanzo. Per un po’
rimango seduto davanti allo schermo vuoto. Poi mi sposto su
quest’intervista, ricevuta dal responsabile di un sito internet che ha
riunito le domande di molti utenti. Scrivo qualche risposta. A un paio
di domande. Massimo tre. A quel punto è l’una e mezza e mia figlia,
la secondogenita, rientra da scuola; il chiasso che produce in salotto
mi deconcentra talmente che non ha piú senso continuare. Spengo il
computer e vado a preparare il pranzo. Ci sediamo a mangiare
insieme. Da un anno a questa parte è particolarmente antipatica, e
io, con la mia distimia, la sopporto a fatica. Cerco comunque di
raggiungerla al di là del groviglio di rovi che improvvisamente le è
cresciuto intorno. È cosí estenuante che finito di pranzare devo
schiacciare un sonnellino. Punto la sveglia per non arrivare tardi a
prendere il figlio piccolo, povero tesoro, al doposcuola. Quando mi
vede comparire ride di felicità e mi corre incontro; per un momento,
fugace come una poesia, ho la sensazione che andrà tutto bene.
Fino a che punto i suoi libri sono autobiografici?
Una volta ero capace di rispondere a questa domanda. O meglio,
sapevo mentire spudoratamente rispondendo a questa domanda,
per proteggere i miei cari e me stesso. Ma sapevo anche la verità. E
la verità è che nei miei romanzi ci sono, ci sono sempre stati,
frammenti di autobiografia, che generalmente affido ai personaggi
femminili. Per depistare il lettore.
Con gli anni, la faccenda si è complicata. Cosa fare, per esempio,
con un libro che ha anticipato la tua vita? Hai inventato una trama
surreale. Assurda. Un anno dopo la pubblicazione, quello che hai
scritto si realizza davvero. Quel romanzo è da considerarsi
autobiografico?
E tutte le storie “dietro le quinte” che racconto agli incontri con i
lettori? Quelle che dovrebbero rivelare l’esperienza personale che mi
ha portato a scrivere? Storie talmente perfezionate per il pubblico
che ormai non sono piú sicuro se siano realmente accadute.
Per non parlare dello stillicidio di menzogne nella vita privata, al di
fuori dei romanzi.
Per esempio, quando sono in visita da Ari, all’ospedale Tel
Hashomer.
Prima di partire insieme per il nostro grande viaggio, mia nonna
mi ha chiesto: con chi parti? e quando le ho risposto, con Ari, ha
fatto un sospiro di sollievo, per fortuna, si prenderà cura di te.
Adesso le sue braccia forti, solcate dai tendini, si sono
rinsecchite. Le guance paffute sono ormai scavate.
Mi chiede di portargli un bicchiere d’acqua fredda dalla fontanella
e quando torno cominciamo a parlare.
Un tempo gli raccontavo cosa mi succedeva. Adesso sono
passato ad aneddoti preconfezionati. Glielo leggo negli occhi di
chemioterapia: lo sa che gli racconto aneddoti costruiti ad arte e
desidera, ha bisogno, che gli racconti una sola cosa non ritoccata.
Qualcosa che non abbia un inizio, uno svolgimento e la morale
finale.
Ma io non so piú fare altro. Tutto quello che mi capita nella vita
vera viene trasformato, appena succede, in una buona storia, da
utilizzare alla prima occasione. In un incontro con i lettori. In
un’intervista. In una chiacchierata in ospedale con Ari, che chiude gli
occhi mentre sto parlando, mi prende la mano e dice: vorrei restare
in silenzio un pochino insieme a te.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo