L’ultimo respiro – Alessia D’Oria

SINTESI DEL LIBRO:
Sei bellissima», mormorò compiaciuta e orgogliosa donna Michela.
«La vedi, Assunta?», continuò raggiante, «tua figlia è splendida!».
«Sì, la vedo», replicò con poco entusiasmo donna Assunta,
mentre, seduta comodamente sulla poltrona dell’atelier, continuava a
sfogliare con poco interesse una rivista.
Donna Michela si voltò verso Angela visibilmente mortificata e le
prese le mani: «Tua madre deve ancora riprendersi del tutto, tesoro,
ma, credimi, anche lei ti vede bellissima!», la rassicurò con
gentilezza.
Angela annuì con poca convinzione, poi rivolse il suo sguardo allo
specchio: l’abito bianco era senza spalline, un corsetto interamente
ricamato a mano impreziosito da perle raffinate, che scendeva in un
gonnellone ampio, di pura seta e tulle. Il velo era lungo, con dei
leggeri ricami in pizzo.
Non era il genere di abito che preferiva, non era quello con cui si
sarebbe immaginata all’altare, ma non aveva nessuna importanza.
Non era l’abito dei suoi sogni, perché a cosa sarebbe servito, se
l’uomo ad attenderla non era quello che realmente desiderava?
Era stata categorica con se stessa: si era vietata anche solo di
provare un abito di suo gusto. Sarebbe stato un supplizio indossare
l’abito perfetto per un matrimonio combinato, fasullo, destinato a
imprigionarla per sempre in una gabbia dorata.
Due anni.
Erano trascorsi due anni e ancora non riusciva a rassegnarsi alla
piega che aveva preso la sua vita.
Il matrimonio si sarebbe dovuto tenere due anni prima, nel mese
di ottobre, ma con la morte di Antonio e con le indagini ancora in
corso era stato posticipato di un anno. Solo che gli inquirenti
continuavano a indagare sullo strano caso di quella notte, le indagini
si erano protratte, donna Assunta aveva manifestato una instabilità
psicologica troppo evidente e, quindi, avevano deciso di aspettare
ancora un altro anno.
Due miserabili, maledetti, fottutissimi anni.
Due vuoti, gelidi, fragili anni senza di lui.
Due anni trascorsi a ritardare l’inevitabile, due anni reclusa nella
sua camera, due anni di sguardi gelidi della madre, sguardi confusi
del padre, sguardi comprensivi di Ciro e sguardi sprezzanti di
Gianfranco. Due anni senza quei dannati e meravigliosi occhi azzurri
che la spogliavano, rivestivano, torturavano, purificavano,
benedivano, maledicevano.
Due anni spesi a chiedersi perché, due anni vissuti così… inerme,
succube.
Due anni in cui rabbia, risentimento, rancore e odio avevano
portato via tutto il bene che albergava nel suo cuore, nello stesso
modo in cui le onde del mare portano via la sabbia.
Tutto era stato cancellato, resettato, confinato in un angolo
inaccessibile del suo cuore.
Un cuore dilaniato, spezzato, frantumato, demolito.
Uno stupido, ingenuo e testardo cuore che aveva sempre cercato
un motivo per battere.
Ma erano due anni, ormai, che aveva smesso di farlo.
O forse sì, in realtà quell’odioso organo muscolare continuava a
svolgere la sua imbarazzante funzione, continuava a essere
propulsore del sangue e della linfa vitale, continuava a essere il
motore del suo apparato circolatorio, ma faceva solo questo: la
manteneva in vita senza farla vivere davvero.
Che senso ha un cuore che compie solo il suo fisiologico dovere,
ma che non dà segni di vita? Che non è più intatto, che non sente
proprio niente.
Angela aveva sempre odiato quella sensazione di ibernazione
emotiva, aveva sempre odiato sentirsi così vuota e priva di sogni,
detestava l’idea di lei che si muoveva e respirava come un automa,
eppure era diventata di nuovo una lastra di ghiaccio sulla quale
scalfire solchi e cicatrici, senza che questa senta la benché minima
pressione o percezione fisica.
Era esattamente così che si sentiva: con un cuore mal
funzionante, che si limitava al minimo indispensabile delle sue
molteplici e svariate funzioni.
«Allora? È quello giusto?», cinguettò voluttuosa un’addetta alle
vendite aggiustandole il velo.
Angela lanciò una rapida occhiata a sua madre che, ovviamente,
non ricambiò lo sguardo, presa com’era a sfogliare apatica la rivista.
Posò di nuovo il suo sguardo su donna Michela che, al contrario,
dopo ben cinque figlie sposate, non aveva perso l’entusiasmo per gli
abiti da sposa, i matrimoni e tutto ciò che ne conseguiva.
Angela mise su un calcolato e finto sorriso e annuì energicamente:
«Sì, è quello giusto», confermò con fin troppa foga, per poi essere
rapita dalle paffute braccia di donna Michela, che la strinsero con
eccessivo ma sincero entusiasmo. Donna Michela era così diversa
da tutti: era gentile, un po’ smielata ma rassicurante. Avevano legato
molto. Ironicamente pensò che avesse sbagliato marito, ma era
stata piuttosto fortunata con la suocera.
Del resto, sarcasmo e autoironia erano degli antidoti piuttosto
potenti contro la depressione totale.
Uscite dall’atelier si recarono verso un noto bar del centro per un
aperitivo.
Angela respirò a pieni polmoni l’aria primaverile. Chiuse gli occhi e
si crogiolò al sole, si beò della tiepida brezza che le scuoteva i
capelli, riempì le narici dell’inconfondibile odore di Napoli.
A parte per definire alcune questioni inerenti all’organizzazione del
matrimonio che richiedevano necessariamente anche la sua
presenza, erano due anni che non poteva uscire da casa.
Fintantoché non si fosse scovato l’assassino di Antonio, suo padre
non le avrebbe permesso di uscire da sola.
Inoltre, donna Assunta aveva atrocemente fomentato lo sdegno
che aveva sempre nutrito per lei e, adesso, grazie alle confessioni di
Antonio di quella notte maledetta, sapeva perché: non era davvero
sua figlia, era frutto di un tradimento, era stata una violenta
imposizione alla sua vita, aveva dovuto fingere per anni un amore
materno, altrimenti Dio solo sapeva cosa le sarebbe capitato.
Francamente non poteva biasimarla. Men che meno ora che,
chiaramente, la vedeva come la causa della morte del suo vero e
unico figlio.
Per due anni Angela aveva cercato di non chiedersi chi fosse
veramente sua madre: le era stata descritta come una sedicenne a
cui, in lacrime, era stata strappata dalle braccia la figlia di appena
qualche giorno di vita.
Negli ultimi due anni aveva cercato di tenersi comunque
impegnata: incanalava le sue energie nel giardinaggio. Piantava lei
stessa dei fiori che, puntualmente, portava alla tomba di Antonio.
Com’era ovvio che fosse, non si iscrisse all’università. Oltre al
fatto che non le fu permesso, nemmeno lei si sentiva più stimolata.
Aveva vissuto quegli anni nell’attesa del matrimonio che l’avrebbe
portata via dall’unico luogo a lei caro: la sua cameretta piena di
scaffali ricolmi di libri e lenzuola color pastello, tende gialle, cuscini
colorati e ricordi belli, belli e dolorosi.
E quel matrimonio l’avrebbe portata via anche dall’unica persona
che amava: Ciro.
Erano stati due anni lunghi e strazianti, pieni di domande senza
risposta, pieni di odio e angoscia, segreti malcelati e verità nascoste.
Ma erano stati anche due anni vuoti: non c’era stata la minima
traccia di gioia, amore, passione in quei lenti, piatti e noiosi giorni
che si trascinavano faticosamente con una insondabile lentezza. Ma
che spesso si rincorrevano spavaldi e furiosi, portatori di tumultuosi
pianti e agghiaccianti attacchi di panico, incubi irrefrenabili, sonni
disturbati, schiene sudate e lenzuola appiccicose.
Le tre donne, scortate da chi di dovere, attraversarono tutta via
Caracciolo: il sole faceva splendere il mare in una spumosa tonalità
bluastra. I gabbiani svolazzavano nel cielo, l’aria era satura di caffè,
il vento trascinava le melodie dei cantanti di strada. Si fermarono a
un bar che affacciava sul mare, presero posto in un angolo su cui il
sole splendeva caldo e invitante, rendendo quella postazione l’ideale
per assorbire il calore del sole. Angela si sedette e rivolse il suo
sguardo al cielo, accogliendo i caldi raggi solari che le
accarezzarono gli occhi castani mescolati a quella solita punta di
arancio che si svelava al sole.
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