L’invenzione di noi due – Matteo Bussola

SINTESI DEL LIBRO:
Pare che la bellezza di una perla sia la risposta organica a un
dolore.
La perla cresce attorno alla ferita che un singolo granello di
sabbia, penetrando nella conchiglia, provoca all’ostrica. È la risposta
a un elemento imprevisto che riesce ad attraversare le sue difese.
L’amore non è diverso: è la reazione a qualcuno che è riuscito a
superare tutti i nostri muri. La risposta accogliente a una potenziale
minaccia che ha valicato il confine. L’accettazione di un rischio.
Quella minaccia potrà non manifestarsi mai come tale, oppure
dichiararsi quando meno te lo aspetti. «Ti ho dato gli anni migliori
della mia vita!» aveva gridato mia madre a mio padre in un
intramontabile cliché, quasi quarant’anni addietro, quando lui se
n’era andato per convivere con una giovane cantante istriana,
lasciandoci soli e in miseria. Papà, che sapeva aggiustare tutto, a un
certo punto aveva rotto la cosa piú importante. Immagino che la
faccenda abbia in parte condizionato la mia visione delle relazioni
ma, ecco, è un fatto: io non sono uno che se ne va.
Nadia e io condividevamo questa visione, potrei dire che era nella
nostra natura: per noi, la promessa che ci eravamo scambiati veniva
prima di tutto il resto, addirittura prima dell’amore che l’aveva
generata. Nadia ora non mi amava piú, ma sapevo che non mi
avrebbe lasciato mai. Questo la stava condannando a un’esistenza
di profonda infelicità.
Per me era piú semplice, perché l’amore che provavo per lei e la
promessa che le avevo fatto erano la stessa cosa. Dopo quindici
anni di matrimonio amavo mia moglie come il primo giorno, adoravo
la storia nascosta dietro ogni sua piú piccola ruga, il suo culo
raddoppiato negli anni, i suoi capelli di tre colori diversi da quando
aveva smesso di tingerli, la fessura tra i suoi incisivi che il tempo
aveva ulteriormente allargato, la maniera buffa che aveva di
spalmare il burro sulle fette biscottate. Amavo il privilegio di poter
vedere in trasparenza, sotto il velo della maturità, il viso della
ragazza ch’era stata e che solo io, perlomeno da amante, avevo
conosciuto cosí bene.
Nadia invece non vedeva piú niente, né l’uomo che le stava
davanti né il ragazzo che, molti anni prima, l’aveva fatta innamorare.
Ero da tempo diventato opaco al suo sguardo, e non sapevo come
fare per tornare alla luce.
Il nostro matrimonio era un granello di sabbia senza perla.
2.
Narcisi
Per capire il perché di ciò che accadde, sarà meglio che cominci
dall’inizio.
Mi chiamo Milo Visentini e ho quarantasette anni. Devo il mio
nome a mia madre, che volle per me quello di suo nonno, e si
convinse ancor piú quando scoprí che l’etimologia di Milo rimanda a
«gentile, caro, buono». Una variante lo riconduce al significato latino
di «milite, soldato». Entrambe le interpretazioni, a pensarci,
riassumono bene il mio carattere. Papà, grandissimo appassionato
di jazz, pensava invece piú a Miles Davis, e la scelta di mamma gli
era andata a genio soprattutto per questo. Ho un fratello piú grande,
Marco, al quale devo letteralmente la vita, che mi chiamava Milou,
come il cane di Tintin.
Se si escludono gli anni universitari, non mi sono mai allontanato
dalla mia città.
Non c’è mondo per me fuori dalle mura di Verona, disse Romeo
nella celebre tragedia.
Sei sempre vissuto qui, proprio come una pianta, mi diceva
Nadia.
Per quanto mi riguarda, avevano ragione entrambi.
Lavoro in una piccola ma ben frequentata osteria, gestita col mio
amico Carlo. Per questa ragione, negli anni, ho accumulato diversi
chili. Non sono obeso, se è questo che immaginate, ma diciamo che
ho una corporatura piuttosto importante. Anche se ho smesso di
fumare e mi sforzo di andare a correre un paio di volte a settimana,
ho di continuo il fiato corto, gli occhi arrossati, e ogni mattina la
schiena si fa sentire quando mi piego per infilare i calzini. Non è
sempre stato cosí. Quando ci eravamo appena conosciuti e
passavamo intere giornate ad analizzare i nostri visi, e i dettagli che
li componevano, divertendoci a rivelare cosa amavamo l’uno
dell’altra, Nadia un giorno arrivò a dirmi che avevo «le spalle di un
sollevatore di pesi innestate su un corpo da maratoneta», ma pure
gli «occhi profondi e acquosi da donna innamorata». Di fronte al mio
disappunto, aggiunse: «Però con la luce ingenua e disperata di un
bambino costretto a crescere troppo in fretta». Per me erano solo
due insignificanti occhi marroni, e il fatto che lei riuscisse a vederci
dentro un’intera storia, con la facilità di chi sta leggendo un racconto
ad alta voce, mi riempiva di stupore.
Mi definiscono una persona riservata, ed è abbastanza vero. Lo
dicono quasi fosse un limite. Io, al contrario, ho sempre pensato alla
riservatezza come a una specie di regalo. Riservare qualcosa ha a
che fare col tenerlo in serbo per qualcuno, che sia un tavolo al
ristorante, la copia di un libro, una bottiglia di vino, oppure una parte
fondamentale di noi. Quando conobbi Nadia, compresi per chi avevo
tenuto in serbo la mia.
Cos’altro potrei dire?
Che mia moglie era la donna piú bella che avessi mai visto
suonerebbe fatalmente banale, cosí come se vi dicessi che ho
vissuto tutta la vita con la convinzione di non meritarla. Non ero il
solo a pensarlo.
Una sera di molti anni fa, a cena con Marco, sua moglie Anna e
qualche amico, mentre parlavamo di film visti di recente, qualcuno
disse di Nadia che era «uguale all’attrice Julianne Moore».
L’osservazione, invece di lusingarla, sembrò quasi infastidirla. Allora
Anna precisò che Julianne Moore, oltre la bellezza e la bravura,
aveva un pregio ben piú importante: era sposata con un uomo
bellissimo, tal «Bart» qualcosa.
– Un figo spaziale! – aggiunse.
Un istante dopo, tutti si voltarono verso di me, mi fissarono senza
dire niente. Poi scoppiarono a ridere.
Fu la sera in cui Marco, dopo una grappa d’Amarone di troppo,
mentre eravamo sul balcone, mi confessò che stava pensando di
lasciare Anna, perché ormai restavano insieme solo per le figlie, e il
vuoto che si respirava in casa quando le bambine non c’erano era
diventato insopportabile.
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