Perduti nei Quartieri Spagnoli – Heddi Goodrich

SINTESI DEL LIBRO:

Lo so che preferisci sapermi morto. Sono quasi vivo. Non mi aspetto risposta
e non ti scriverò più. Ma sono quasi quattro anni che provo a scriverti
qualcosa. Dovrei scriverti una lettera di almeno cento pagine per tentare di
spiegare. Non ci riuscirei mai. Non ti darò spiegazioni neanche questa volta.
Sono un incapace, mi sono fidato sempre del mio istinto, che è falso,
traditore, coglione. Ma qualche anno fa ho fatto l’errore più grande della mia
vita, irrecuperabile, inspiegabile, inimmaginabile. Mi sono illuso per un po’
di tempo (a volte ancora mi succede) di aver fatto ciò che la mia testa, il mio
istinto, comandava… forse era la cosa giusta da fare ma mi ha rovinato la
vita. Volevo comunicarti solo questo. Perché meriti di sapere che la mia vita
non vale mezza lira. Meriti di sapere che ogni volta che sono a tavola con le
posate in mano, per un attimo ho la tentazione di bucarmi un occhio con un
coltello.
Spero con tutte le mie forze che questo possa estorcerti un piccolo sorriso di
soddisfazione, così come spero che il tempo passato insieme per te significhi
solo un brutto, terribile ricordo e non la tua croce. Desidero solo che la mia
vita passi velocemente, reincarnarmi in qualcuno o qualcosa di migliore del
mio attuale io, e magari incontrarti in un aeroporto a Stoccolma o Buenos
Aires.
Non perdonarmi, non rispondere, non intristirti. Sii felicissima, fai dei
bambini, scrivi dei libri, registra delle cassette, fai tante foto… è ciò che amo
pensare di te tutto il tempo. E di quando in quando, se puoi e se vuoi,
ricordati di me.
p.
1
«Heddi.»
Sentii il suono del mio nome come non lo sentivo da anni, come il nome di
una specie esotica. Pronunciato con tono interrogativo ma perfezionato, come
se fosse stato recitato più e più volte – con tanto di respiro sottile e vocali
corte – fino a scivolargli di bocca con una disinvoltura stupefacente. Nessun
altro suono in tutti i Quartieri Spagnoli, né l’urlo micidiale di una donna
tradita né una raffica di pallottole in un raptus di vendetta, mi avrebbe fatto
allontanare dal caldo brusio del camino in una notte così gelida.
Davanti a me c’era un ragazzo, un uomo, con la bocca stretta come se
avesse detto la sua e ora toccasse a me. Aveva la camicia infilata nei jeans, le
maniche rimboccate fino al gomito e un utilissimo taschino, proprio sopra il
cuore, teso dallo sforzo di contenere un pacchetto di sigarette. Niente a che
vedere con gli altri ospiti, che tentavano di cancellare, con piercing e rasta e
pallore malsano, un’infanzia serena fatta di gnocchi di patate e gite al mare.
Nonostante l’ora, il loro dolce odore – di patchouli e hashish e vestiti di
seconda mano – aleggiava ancora nella cucina, dissolvendosi in quello della
birra sgasata e del risotto allo zafferano. No, lui chiaramente non apparteneva
alla nostra tribù di linguisti dell’Orientale. Eppure se ne stava là, come
l’acqua cheta di un lago profondo.
«Tieni, l’ho fatta per te» disse, estraendo una cosa dalla tasca del
pantalone. Aveva senza dubbio una cadenza meridionale, se non proprio
napoletana. La mano gli tremò, un leggerissimo agitare delle acque, nel darmi
una cassetta in una custodia decorata a mano. Per Heddi, c’era scritto,
proprio così, a cominciare dalla H maiuscola fino a uno schizzo d’inchiostro,
il puntino sopra quella i che quasi non ricordavo più di avere.
Ne fui destabilizzata. Era proprio lo spelling del mio nome che ne
deragliava la pronuncia, perché allora era facile portarlo al suo estremo
letterale, con la e melodrammaticamente allungata e la d doverosamente
rinforzata dalla geminazione consonantica, che al Sud si prendeva tanto a
cuore. Era del tutto perdonabile che la H venisse trascurata: a Napoli
l’aspirazione era riservata esclusivamente al riso. «Come Eddie Murphy?» mi
dicevano, e io annuivo e basta. Non mi dispiaceva poi così tanto. Heddi era
prima, Eddie era adesso.
«Musica?» gli chiesi, e lui fece di sì col capo, con evidente disagio e con la
mano stretta a pugno intorno a una bottiglia di birra vuota.
Avevo la schiena riscaldata dalla danza tremolante delle fiamme e dalle
risate ignare degli amici che chiamavo affettuosamente «i ragazzi.» Il fatto
che facevo parte anch’io di quel clan, e che in qualsiasi momento potevo
tornare da loro, mi regalava un’innegabile sensazione di privilegio e di
sicurezza, di cui però ora percepii una certa ingiustizia.
Al piano di sotto la porta d’ingresso vibrò con un tonfo secco,
probabilmente l’ultimo degli ospiti che barcollava via. Il tipo del regalo
sobbalzò, a rendersi conto che la festa che prima gli turbinava intorno non
c’era più. Cercò di dissimulare l’imbarazzo ma io lo avvertii ugualmente. Fu
come un pizzicotto, un piccolissimo dolore accompagnato dal rimpianto di
essere rimasta, ancora una volta, l’unica sobria.

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