La vita fino a te – Matteo Bussola

SINTESI DEL LIBRO:
La mappa della mia vita sta in un enorme cassetto bianco.
Lo chiamo «il cassetto della morte».
Ci butto dentro da sempre le cose che non ho tempo di catalogare, le carte
sopravvissute ai traslochi, i documenti importanti, i diari che tenevo al liceo, i
vecchi abbonamenti degli autobus, le foto in attesa di destinazione costrette a
una convivenza sedimentaria. Le butto lí perché m’illudo che, se stanno in un
unico posto, quando mi serviranno le troverò di sicuro.
Ieri mattina dovevo cercare un vecchio libretto degli assegni per restituirlo
in banca, ho rovistato nel cassetto, non sono riuscito a scovarlo.
Ho ritrovato invece la brutta copia di una lettera che mi ha aperto a metà.
È lunga otto pagine.
È una lettera d’amore scritta a biro verde su fogli a quadretti, la calligrafia
frettolosa e storta di chi ha premura, con la quale cercavo di riconquistare una
ragazza che mi aveva lasciato.
Comincia con tono incazzoso, finisce che le dico che la amo.
La scrissi millenni fa, la bella copia andai a imbucarla personalmente nella
sua cassetta delle lettere facendomi dodici chilometri in bici, alle cinque del
mattino, solo per non essere visto. Ricordo ancora che la prima frase la rubai
da un libro di Octavio Paz, e consideravo quanto stesse meglio nella lettera
mia che nel libro suo.
Lei non mi rispose mai.
Avevo sempre sue notizie frammentarie, attraverso amici comuni, le solite
cose. Chi mi diceva di averla avvistata al Valpolicella Rock Festival a
limonare con uno, chi la dava per certa in Brasile o giú di lí. Chi mi diceva è
da maggio che sta con Giorgio, non lo sapevi?
Io non riuscivo a farmene una ragione, ero ossessionato.
Una sera la intravidi per puro caso all’interno di un bar, mentre passavo
davanti alla vetrina, e feci la mia mossa. Bloccai un indiano di quelli che
vendono le rose, e cercando di spiegarmi meglio che potevo nel mio
esperanto veronese-inglese gli diedi ventimila lire e gli intimai di filare
dentro il bar e consegnare tutte le rose che aveva alla ragazza là in fondo,
quella bellissima e splendente come la rugiada del mattino.
Ho sempre avuto un po’ di problemi con l’inglese. Infatti il tipo entrò e io
dal vetro fui costretto ad assistere all’agghiacciante scena di ’sto venditore
maledetto che andò a distribuire a TUTTE le donne presenti nel locale una rosa
a testa, implacabile e fulmineo, dopo essersi intascato tutti i soldi che avevo.
Quando l’indiano m’indicò attraverso il vetro, come a dire «eccovi il
genio», e l’intero bar si voltò a fissarmi tipo pesce palla in un acquario,
compresi per la prima volta il vero significato della parola «umiliazione» (o
figuremmé, recita il vocabolario dei sinonimi). Dopo quel giorno, niente
riesce piú davvero a farmi del male.
Rividi la ragazza tempo dopo a una festa, in quelle scintillanti condizioni
da sabato sera a trent’anni. Si era laureata da poco, io ero diventato architetto,
lei aveva una borsetta blu coi brillantini che m’ipnotizzava, parlammo fitto
per mezz’ora con i gin tonic che annullavano lo spazio-tempo.
Mi resi conto che il tono incazzoso era sparito del tutto, l’amore invece no.
Ci scambiammo i numeri di telefono – il mio era rimasto lo stesso –
qualche giorno piú tardi le mandai un sms che terminava con una domanda,
che com’è noto è la regola base per suscitare un messaggio di replica.
Non mi rispose nemmeno allora.
Finí in quel momento anche per me, non ci ho piú pensato fino a ieri.
Mi è venuto in mente che l’amore certe volte termina cosí, sospeso e privo
di soluzione, come quei problemi che non abbiamo fatto in tempo a risolvere
sui quadernoni delle vacanze estive.
Finisce non quando smettiamo di fare le domande, ma quando non
arrivano piú le risposte.
Negli anni magari te ne arrivano altre, a domande che non sapevi
nemmeno di avere fatto, contenute in lettere che non hai mai scritto: sono le
risposte che contano.
Il mondo intero.
Il ragazzo gracile che fa il barista in stazione a Piacenza prepara
cappuccini buonissimi, li serve con un sorriso e un cuoricino disegnato col
cacao in polvere, alle ragazze li fa piú grandi. Ha un’età indefinibile, un
marcato accento del Sud, negli occhi un velo d’indelebile malinconia di cui
non t’accorgi subito – ma due caffè e un muffin ai mirtilli possono essere un
tempo sufficiente – che i piccoli occhiali tondi non riescono a celare del tutto.
L’agitata lentezza dei suoi gesti mi racconta biografie possibili. Magari vive
lontano dalla sua famiglia, ha un capo che lo tratta con arroganza, di notte gli
capita di sognare una ragazza gracile come lui ma con gli occhi che ridono.
Forse è solo una giornata storta.
Il signore anziano che mentre sono fermo in auto attraversa le strisce con
la mano tesa in avanti, come si faceva un tempo, anche se è verde, vive in un
passato che lo riscalda piú del giaccone che indossa, e visto dall’osservatorio
del qui suscita tenerezza. Mi ricorda mio nonno che per segnalare la svolta in
bici buttava tutto il braccio in fuori, poi sterzava all’improvviso e imboccava
la strada senza manco girarsi, con la fiducia autoritaria che contraddistingue
gli uomini di quelle generazioni.
La ragazza che fa la cameriera nel bar gestito dai cinesi a Mantova, mentre
serve ai tavoli ha quell’aria da bestia addomesticata, come se stesse subendo
un’ingiustizia. Ha pantaloni a vita bassa, i capelli rasati ai lati, una maglia
viola vistosamente scollata con le maniche tirate su. Le maniche arrotolate
lasciano intravedere un tatuaggio sull’avambraccio sinistro, il tatuaggio è una
delicata rosa rossa che fa a pugni con la sua espressione truce. Quando torna
al bancone col vassoio vuoto, la titolare cinese tratta la ragazza con
gentilezza, gli ordini che impartisce sembrano quasi delle scuse, lei invece la
guarda con supponenza. Nessuna delle due era pronta a trovarsi lí. Ciascuna
vive la cosa a modo suo.
Una voce di donna arriva dalla strada e chiama: – Marta! Marta! – giú per
la discesa. Una voce di bambina dice: – Arrivo! – Marta mi passa davanti in
sella a una bicicletta rossa, suona il campanello sul manubrio, in fondo alla
strada la mamma ha le braccia aperte come se dovesse afferrare il mondo
intero.
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