Otel Bruni – Massimo Manfredi

SINTESI DEL LIBRO:

La notte del 12 gennaio 1914 fu ricordata al nostro paese come una
delle più rigide di tutto l’inverno e forse di tutti gli inverni a memoria
d’uomo. La neve aveva cominciato a cadere verso sera e, cosa del tutto
inusuale se non impossibile, il sole si era voltato indietro – come usava
dire – prima di affondare dietro l’orizzonte, apparendo per pochissimi
minuti nello stretto spazio che separava l’orlo occidentale della coltre
nuvolosa dal profilo della terra. Il raggio vermiglio aveva attraversato la
fitta cortina di fiocchi candidi creando un’immagine fantasmagorica,
un’atmosfera così irreale che i contadini che stavano rientrando per la
cena si erano fermati al centro dell’aia a contemplare la visione mirabile,
quasi un segno divino, e a cercare di interpretarne il significato. Erano
diventati parte di uno scenario stupefacente, di cui non s’era mai sentito
a memoria d’uomo, e un giorno avrebbero cercato di narrare ai loro figli
e nipoti di aver visto nevicare sul sole.
In breve tempo le loro sagome si erano imbiancate e la luce d’oro si
era spenta.
La casa dei Bruni era un vecchio edificio colonico a tre spioventi con
le grondaie corrose dalla ruggine e gli scuri di quercia che, perduta ogni
traccia di pittura, avevano assunto un colore grigio uniforme. Sorgeva a
poca distanza dalla strada e distava una cinquantina di metri dalla stalla
e dal fienile. Non c’era una casa padronale perché il podere faceva parte
della tenuta del notaio Barzini che abitava in un palazzo a Bologna. Un
podere di cento tornature buone, se non di più, che confinava a levante
con una proprietà dell’opera pia Bastarda, un istituto che si prendeva
cura, per così dire, dei bastardini abbandonati nella ruota dei frati o
delle suore in qualche convento di città.
La stalla era un edificio imponente, per metà adibito a fienile
d’inverno e a cascina per il grano d’estate, dopo la mietitura. Nell’altra
metà stavano le vacche con i vitelli, quattro paia di buoi per arare e un
toro per la monta. Era lì che ci si trovava d’inverno a veglia per non
andare a letto con le galline e per tirare tardi con ospiti sia occasionali
che abituali, senza dover bruciare legna nel camino perché il calore delle
bestie era più che sufficiente.
Quella sarebbe stata una lunga notte perché il giorno dopo nessuno,
tranne il bovaro, avrebbe dovuto alzarsi presto, una notte da passare
nella stalla ad ascoltare storie. E così, dopo cena, mentre le donne
rigovernavano, gli uomini, uno dopo l’altro, andarono nella stalla
portandosi dietro un bottiglione di vino rosso novello che non aveva
ancora finito di fermentare. Erano sette fratelli: Gaetano, Armando,
Raffaele che tutti chiamavano Floti, Checco, Savino, Dante e Fredo. Il
vecchio Callisto ormai non prendeva più parte alle nottate perché aveva
mal di schiena e stava scomodo sugli sgabelli per mungere.
Aspettava che le donne gli mettessero nel letto il coccio con le braci
coperte di cenere che chiamavano “la suora”
, dentro al suo trabiccolo di
legno,
“il prete”
, e si infilava sotto le coperte bollenti. E c’era in quella
associazione di parole trasgressiva e irriverente una certa logica, nel
senso che, secondo l’opinione comune, mettere a letto insieme una suora
e un prete avrebbe creato una reazione termica elevatissima.
Ogni volta, stirandosi fra le lenzuola di canapa, Callisto borbottava:
«Che grande invenzione il letto!» e in breve russava come un trombone.
Nella stalla era alloggiato un vecchio che diceva di chiamarsi Cleto e
faceva l’ombrellaio per guadagnarsi un piatto di minestra e un giaciglio
di paglia. Parlava sempre con un suo stile sentenzioso per ottenere
rispetto e considerazione. Anche lui aveva osservato quel raggio
fiammeggiante, scagliato contro la fitta cortina di neve che scendeva dal
cielo, ed esordì con un proverbio: «Quand al soul al’s volta indrì, brota
not ai ten adrì». Quando il sole si volta indietro, una brutta notte gli va
dietro.
Gaetano, il bovaro, fece notare che non ci voleva molto a prevedere
una brutta notte visto che la neve aveva già completamente coperto le
impronte lasciate poco prima attraversando l’aia. Stava ancora parlando
quando si sentì bussare al portone ed entrò Fredo, che aveva portato con
il biroccino la mamma alla novena di sant’Antonio. Era avvolto nel
tabarro fino agli occhi e portava un cappello gualcito calato sul naso.
«Nevica che Dio la manda» esclamò come se portasse una grande
notizia, battendo i piedi sul pavimento.
«Siediti» disse Gaetano porgendogli uno sgabello, «bevi un
bicchiere, che ti scaldi.»
«Secondo me» disse Fredo, «domani mattina ce n’è un culo, di
neve.»
«Sì e no una gamba» obiettò Gaetano. «Quando viene giù così forte
non può durare molto.»
«Lo dici tu» intervenne Cleto, l’ombrellaio. «Mi ricordo che nel ’94
a Ostiglia in una sola notte ne venne giù un metro.»
«Un metro non è un culo» ribatté Gaetano.
«Dipende a che altezza ce l’ha uno, il culo» ridacchiò Fredo.
Se si parlava del tempo ognuno aveva la sua da dire, l’esempio da
ricordare, l’evento stupefacente da descrivere. Nelle loro vite tutto era
sempre uguale, un giorno come l’altro, una notte come l’altra: solo le
manifestazioni della natura sembravano ancora stupire.
«Volete saperne una?» disse il bovaro. «Quando vengono giù fiocchi
così grandi che sembrano fazzoletti da naso e l’aria è così ferma,
potrebbe tirare il terremoto.»
Floti, che era stato zitto fino a quel momento, volle entrare nella
discussione. «Su questo non c’è da preoccuparsi» disse. «Se deve tirare il
terremoto le bestie danno l’allarme in anticipo, state sicuri.

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