La vita danza solo per un istante – Theresa Révay

SINTESI DEL LIBRO:
Ha facoltà di raggiungere Addis Abeba. Le parole erano scritte in
corsivo sul retro della tessera da giornalista. Senza un permesso
ufficiale, sulle terre del Negus non era possibile spostarsi nemmeno
in tempo di pace, figurarsi nel corso di una guerra. “Tutto questo è
inutile, visto che siamo al preludio della sconfitta” s’irritò Alice
osservando l’uomo con il fucile a tracolla che esaminava i suoi
documenti con palese diffidenza. Benché la pazienza non fosse mai
stata una sua virtù, sapeva per esperienza che in Africa, davanti a
un militare, era meglio restare in silenzio. Il suo interprete Alemayu,
invece, non si faceva scrupoli e agitava con foga le braccia, quasi
volesse minacciare l’interlocutore con i fulmini del cielo.
Pioveva da giorni, cosa inconsueta per la stagione; la strada di
montagna era un susseguirsi di pozzanghere di fango più o meno
profonde. Gli uomini del convoglio stavano cercando di sbloccare il
camion impantanato, quando il gruppo di soldati li aveva sorpresi
spuntando in silenzio dalle rocce. Quelli alle prese col camion
indossavano una toga bianca sporca di fango sopra pantaloni da
cavallerizzo, gli altri, in uniforme cachi e piedi nudi, apparivano
stanchi e spazientiti.
Alice infilò una mano in tasca e giocherellò con una manciata di
talleri dell’imperatrice Maria Teresa, la moneta locale. Avrebbe
potuto guadagnare tempo in cambio di denaro? Gli etiopi erano
considerati uomini cui non faceva difetto l’orgoglio; inoltre, in quella
società di stampo ancora feudale, il prestigio dei guerrieri doveva
restare inviolato. Perciò, anche se le truppe dell’imperatore Hailé
Selassié stavano ripiegando in disordine verso la capitale, e si
temevano saccheggi nelle città, quel militare non si sarebbe mai
lasciato corrompere. L’uomo chiese d’ispezionare il camion. Il
proprietario del mezzo, un armeno dal carattere scontroso, fece
segno ai suoi servi di sollevare il telone. Quelli eseguirono, svelando
un pianale vuoto a eccezione di uno scatolone di maschere antigas;
tutti gli altri scatoloni erano già stati distribuiti alle unità della Croce
rossa. Era evidente che i soldati non avevano mai visto
equipaggiamenti simili, strani cappucci forniti di un tubo di gomma.
Alemayu ne infilò uno per spiegarne l’utilizzo.
L’ufficiale rivolse uno sguardo severo ad Alice. «Come possiamo
combattere contro la “pioggia che brucia”?»
Quell’espressione, tristemente poetica, era già stata usata dallo
stesso imperatore. L’ufficiale le ordinò di seguirlo lungo una
mulattiera. Alice obbedì. Il sentiero era sdrucciolevole, i sassi
ricoperti di una patina di fango rossastro. Alemayu le afferrò un
braccio per impedirle di cadere, borbottando che allontanarsi con
quello sconosciuto era un’idea stupida. Ma lei non era preoccupata.
L’uomo si era espresso in francese, e dalle sue spalline di pelle di
leone s’intuiva che era uno degli ufficiali della Guardia imperiale
inviati dall’imperatore in Francia per formarsi all’accademia militare
di Saint-Cyr. E poi l’esercito del Negus, seppure in rotta, in genere
manteneva un atteggiamento amichevole verso i corrispondenti
stranieri. I soldati sembravano innanzitutto esausti, sfiniti da una
guerra senza speranza che durava da sette mesi. Contro l’effettiva
superiorità di Mussolini, la sua aviazione e le sue armi chimiche, la
tenacia e il coraggio di quei soldati non avevano potuto fare niente. Il
Duce aveva sbaragliato il Leone di Giuda. Ormai nessuno avrebbe
impedito agli italiani di entrare da vincitori nella città di Addis Abeba.
Era questione di giorni. “Una cosa profondamente ingiusta” pensava
Alice.
Giunsero all’ingresso di una caverna dove erano legati dei muli.
Alcune donne e dei ragazzini, usati per trasportare le armi, erano
riuniti intorno a un fuoco di legna. Alice intuì con timore ciò che
voleva mostrarle l’ufficiale. Un soldato aveva una coperta sulle spalle
e si dondolava emettendo un gemito continuo. Quando vide le sue
piaghe sanguinolente, Alice fece d’istinto un passo indietro. L’acido
invisibile del gas mostarda gli aveva bruciato il volto e gli
avambracci. Senza cure, le ulcerazioni continuavano a estendersi
sulla pelle infliggendogli atroci sofferenze. Emanava un odore di
mandorle amare, l’odore della cancrena. Le medicine arrivavano col
contagocce; costretto a dare la priorità alle armi, il governo non
aveva i mezzi per procurarsene a sufficienza.
Alice si avvicinò ai civili. Era suo dovere osservarli con
attenzione, cosa di cui si scusò con uno sguardo compassionevole.
Quella strana pioviggine venuta dal cielo, con la quale il nemico
aveva asperso non soltanto i combattenti ma anche i villaggi, le
piane fertili, i campi di grano e di orzo e persino le rive del lago
Ascianghi, uccidendo il bestiame e avvelenando il terreno, aveva
terrorizzato la popolazione. Sembrava che sull’Abissinia, il paese
cristiano più antico del mondo, si fosse abbattuta una piaga biblica.
In fondo alla grotta stavano bruciando dell’incenso per
allontanare gli spiriti maligni. Nella penombra, Alice distinse un
bambino assopito tra le braccia della madre. Quando vide le
vesciche sul suo viso, ebbe un fremito di pietà e di orrore. Le armi
chimiche non avevano nessuna giustificazione; dopo la Grande
guerra erano state proscritte con una convenzione internazionale,
ratificata anche dall’Italia. Il loro uso era dunque un atto non soltanto
abominevole, ma anche criminale. Dal suo arrivo in quella terra
martoriata, Alice aveva visto centinaia di vittime dell’iprite sotto i
tendoni della Croce rossa.
La giovane madre sostenne con fierezza il suo sguardo. La
determinazione e la rabbia sorda di quella donna impressionarono la
reporter, che pure sapeva quanto fossero coraggiose le etiopi. Dalla
notte dei tempi spalleggiavano i guerrieri delle loro famiglie con
intensa partecipazione morale e si occupavano del
vettovagliamento. Il valore dei combattenti arrecava loro prestigio e
privilegi. E a volte succedeva persino che le più intrepide guidassero
gli uomini in battaglia.
«Voi siete una giornalista americana. Dovete rendere
testimonianza, è necessario che il mondo intero sappia...»
L’ufficiale non finì la frase; si allontanò di qualche passo per
pudore, sopraffatto dall’emozione. Alice gli lasciò un istante per
riprendersi prima di raggiungerlo. Aveva smesso di piovere. Dopo
l’aria viziata della caverna, quella all’esterno sembrava rinvigorente,
come se la pioggia avesse lavato le impurità. Sospinte dal vento, le
nuvole si squarciavano svelando le creste delle montagne sotto un
cielo azzurro.
«Lo farò. Scriverò quello che succede» disse con decisione,
l’unico tono possibile per consolarlo. «È la ragione per la quale sono
rimasta qui mentre la maggior parte dei miei colleghi se n’è già
andata. Non nascondo mai niente nei miei dispacci».
L’uomo aveva la pelle ambrata e un volto gradevole dai tratti
armoniosi. Alzò le spalle. «A cosa serve, se nessuno ci ascolta? Né
la Società delle nazioni, né le democrazie europee. E nemmeno gli
americani. Siamo stati lasciati soli fin dall’inizio. Ci avete
abbandonato. Siete una massa di vigliacchi!»
L’eco del suo disprezzo risuonò tra i versanti scoscesi. Per un
attimo Alice pensò che forse avrebbe dovuto ascoltare Alemayu e
non allontanarsi dalla strada.
«I fascisti hanno bombardato le unità della Croce rossa. Hanno
massacrato degli innocenti. Hanno ucciso mia moglie, che era
incinta...» aggiunse l’etiope con voce rotta. «Questa verità voi potete
anche dirla, ma dubito che interessi davvero i vostri compatrioti.
Preferiscono vivere le loro piccole vite tranquille, senza mai farsi
un’idea sulle cose che succedono nel mondo».
Alice prese la penna e il taccuino. L’inchiostro blu le macchiò le
dita e se le pulì sui pantaloni.
«Non tutti restano indifferenti. Si sono alzate delle voci di
protesta. Quanto a me, sono una donna di parola. Invio solo
informazioni veritiere, il mio giornale questo lo sa. Lo sanno anche i
lettori, e si fidano di me. Come si chiamava vostra moglie?»
Si sedettero su un masso tra i cespugli di boraginacee e timo
selvatico. La vita tra le pietre. In realtà, Alice aveva mentito. Non
sempre i giornalisti venivano creduti. Il corrispondente inglese del
Times aveva iniziato a denunciare l’uso dell’iprite già nel mese di
marzo. I suoi articoli erano stati pubblicati integralmente e adesso il
governo britannico chiedeva «prove degne di fede» per protestare
ufficialmente presso le istituzioni internazionali. I giornalisti non
erano giudicati sempre abbastanza virtuosi da meritare piena fiducia,
quantomeno dalle istituzioni. Così Alice si era imposta, come del
resto facevano anche i suoi colleghi più onesti, di non scrivere mai
niente che non avesse verificato in prima persona. Nobile impegno,
ma non privo di pericoli.
«Non servirà a nulla» insistette l’ufficiale quando lei gli chiese
degli ultimi scontri.
«I nostri lettori devono sapere che avete combattuto con dignità e
riportato anche delle vittorie. Altrimenti passerà l’idea che i fascisti
sono invincibili».
«Se fosse stata una guerra tra uomini, fanteria contro fanteria,
avremmo battuto gli italiani. Come è successo a Adua».
I suoi occhi brillarono di fierezza. Alice scosse la testa. Era una
delle ragioni che avevano spinto Mussolini ad andare all’assalto
dell’unico paese libero e indipendente del continente africano. Una
volontà irriducibile, quasi ossessiva, di vendicare la bruciante
sconfitta del 1896, la prima volta che, dai tempi di Annibale, un
popolo africano aveva prevalso con le armi sugli occidentali. Ma
quale che fosse il destino di quel popolo, nessuno avrebbe potuto
cancellare dalla storia e dalla memoria collettiva quel trionfo di
quarant’anni prima.
Vedendo l’ufficiale inorgoglirsi a quel ricordo mentre tutto gli
stava crollando intorno, Alice gli rivolse un sorriso. Amava il suo
mestiere anche per quei momenti inattesi, quando un perfetto
sconosciuto si confidava con lei in un luogo improbabile come
quello. Un contatto prezioso quanto effimero, nel quale non esisteva
né amicizia né una particolare empatia, ma solo il desiderio di
testimoniare. In gioco c’era qualcosa che andava al di là di entrambi.
Alice avvertiva la responsabilità di non tradire quell’ufficiale e di fare
luce sulla verità.
L’uomo alzò la testa e tese le orecchie. Il rumore era lieve, ma
riconoscibile tra mille. Alle loro spalle, i civili si rifugiarono urlando in
fondo alla caverna. Alice aveva già notato che in Etiopia, al
sopraggiungere di un aereo, i bambini si mettevano subito in cerca di
un buco qualsiasi nel terreno per infilarvisi dentro, terrorizzati.
Il militare non si mosse.
Una squadriglia passò sopra di loro, alta nel cielo, in direzione di
Addis Abeba.
«È praticamente impossibile abbatterli. La trentina di armi
anticarro di cui disponevamo non è servita a niente. Che assurdità!
Pare che l’imperatore voglia spostare la capitale verso ovest per
continuare a combattere. Un negus d’Etiopia non si arrende mai!
Morirà con le armi in pugno, a Dio piacendo... Il fatto è che qui da
noi, quando muore il capo, gli uomini smettono di combattere. Come
se venisse meno l’energia. Gli italiani stanno per diventare i padroni,
e io temo il peggio. Conosciamo i sistemi di repressione che hanno
adottato in Libia».
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