La nostra folle, furiosa città – Guy Gunaratne

SINTESI DEL LIBRO:
Eccoli i quattro blocchi che si alzano dietro i tetti dei negozi,
conchiglie rosse e archi acuminati che svettano verso il cielo. Mi do
una mossa e attraverso il mercato di corsa. Un vero angolo orfano,
quello. Pieno di gente assente incastrata tra fermate dell’autobus e
treccartari. Quei corpi che si trascinano. Uno dietro l’altro al
bancomat e in fila per il sussidio di disoccupazione. La gente passa
da queste parti per il barbiere, il cibo in scatola o le pile tipo, roba
così. Punto e basta. Solo commercio di bassa lega. I soldoni girano
in certi angoli spastici, tipo dalle parti del bingo giù verso Wimpy o in
posti del genere. Non ha senso secondo me. Ogni volta che ci passo
davanti vado fuori di testa, e mi sento fortunato a non essere
cresciuto in quei palazzoni.
Il blocco sud è quello più vicino alla mia strada, quindi attraverso
il mercato diretto al cancello. L’odore mi prende alla gola mentre giro
fra i banchi. Limoni, carote e verze nei cartoni, pile di frutta colorata
sistemate dentro cassette blu. Gli ambulanti tirano fuori la loro
paccottiglia di plastica. Ricambi per cellulari e vestiti per bambini.
Utensili da cucina appesi alle grucce. Attraverso tutto correndo,
schivo le merde per terra e i vecchi compari. Però cerco di respirare,
tengo il petto compatto.
Adesso l’ingresso del blocco sud ce l’ho sopra la testa. Lo Stones
Estate e le sue quattro torri grigie intorno a me. E in mezzo lo
spiazzo. Ecco i muri. I mattoni sono ricoperti di graffiti, tag crostosi di
brevi nomi in codice. Nessuno intorno a me, solo il mio corpo in
movimento. Adidas e canotta. Le finestre rotte e la spazzatura
traboccante. Supero i cassonetti e tutt’intorno ci sono aghi e roba
sporca, roba marcia. C’è puzza di piscio e di sporcizia trascinata là
durante la notte. Lascia perdere.
Preferisco spostare lo sguardo in alto, lungo il contorno dei muri
delle case popolari contro il cielo, angoli affilati e decisi. Il blocco sud
s’impenna alto e stretto e io faccio un giro fra l’erba a chiazze e il
cortile. Il blocco si sta svegliando a un nuovo giorno. Fra un’ora sarò
di nuovo qui per una partita coi ragazzi. Sempre che si giochi.
Sempre che questa settimana non abbiano stoppato pure quello,
come tutto il resto. Comunque fra poco Yoos mi dovrebbe mandare
un messaggio. Aspetta e vedrai. Sarebbe fico stare con quel gruppo.
Ho bisogno di facce, di un bel cazzeggio e di ridere. Bisogno di
passare il tempo con la gente, sennò a forza di allenarmi andrò fuori
di testa. Correre mi spreme, però mi rende pure solido. Questo è il
momento della rifinitura, sul cemento in mezzo ai palazzoni spingo
più forte che su qualsiasi altra strada. Eccomi che corro intorno alla
piazza. Eccomi, senza paura.
Lo Stones Estate è un concentrato di follia, lo sanno tutti. Ma non
mi tocca. Però ogni volta che ci vengo a correre penso ai miei fratelli
che qua dentro ci vivono, in mezzo a tutta quell’infame porcheria.
Nella mia testa il posto contiene anche una parte di me, con il suo
silenzio e il suo grigiume. È parte di me per associazione, insomma.
Perché prendo l’autobus con Ardan e Yoos e loro mi conoscono. E
vengo a correre qui. E gioco a calcio qui. Anche se abito in una casa
decente con una famiglia decente. È il posto in cui vengo a correre e
dove sanno chi sono. Per adesso.
Giro l’angolo e supero il blocco ovest. Finestre con le tende e
rosse bandiere sbiadite dell’Arsenal e rosse bandiere dello United e
rosse bandiere del Liverpool e panni stesi. E tipo centinaia di
parabole attaccate ai balconi. Penso di riposarmi un po’. Controllo
l’orologio. Grondo di sudore e lo sento. Allora prendo velocità e
allungo le dita che tagliano l’aria mentre comincio a sprintare.
Ascolto una cassetta motivazionale negli auricolari: se la tua mente
lo concepisce, ci puoi arrivare. Quelle cassette le sento mentre corro
e pure quando me ne sto tranquillo. Voci potenti e forti che plasmano
il mio stato mentale. Arrivo all’angolo fra il blocco nord e quello ovest
e mi fermo. Controllo l’orologio. Le dita aggrappate alle sbarre del
cancello, mi vedo incorniciato contro questo muro.
Devo andare avanti con quest’abitudine. Darmi da fare e
guadagnarmela, insomma. Guadagnarmi il mio posto e trovare una
via d’uscita. Trattengo e regolo il fiato e mi piego fino ai piedi a
toccare i lati delle scarpe da corsa. Mi ritiro su. Guardo in alto e mi
allungo all’indietro. Il cielo è uno spazio luminoso sopra la mia testa.
L’adrenalina colpisce forte e mi vengono in mente cento pensieri alla
volta. Penso alle nuvole, a Yoos, ad Ardan. Penso al mio corpo, a
come sono fatto, al mio sudore, ai miei muscoli. Penso a quel bel
cioccolatino di Missy. Al suo corpo. A quanto voglio farmela al più
presto, sennò vado fuori di testa. Penso pure alla mia famiglia. A mio
padre e al suo cuore messo male, a mamma e alla sua chiesa.
Penso a quello che faranno quando me ne sarò andato. Penso alla
mia via d’uscita, allo spazio blu sopra di me. Al cielo, che vedo solo
quando guardo in su, lontano da quello che mi circonda. Filerò via
da questo posto come la polvere, presto.
Chiudo gli occhi e mi tolgo gli auricolari. Ascolto il rumore delle
macchine e del vento. Sento qualcosa, uno stridio dal blocco ovest.
Guardo da quella parte. Il sole spunta sopra il blocco di fronte, la
luce che rimbalza sui vetri delle finestre mi acceca. Controllo
l’orologio. Ottimo tempo. Continuerò a correre e me ne tornerò verso
casa.
Giro l’angolo e dalle parti dell’incrocio una macchina mi passa
davanti sparando merdosa musica dance. Vedo le saracinesche
alzate vicino all’ufficio postale e i cordoni della polizia lungo Tobin
Road. La feccia bianca deve essere passata da queste parti. Quei
razzisti hanno pure lasciato per strada un sacco di merda. Teste di
cazzo. Transenne dappertutto, pezzi di legno e giornalacci da
bianchi buttati per terra. Sarà meglio tagliare per il parco.
Devo mantenere il ritmo. Stringo le braccia, serro i pugni. Il corpo
è teso, il cuore freddo. Sento i suoni della preghiera da August
Road. Li ignoro. Immagino un tunnel e il mio corpo e basta che lo
attraversa correndo. Lascia perdere il quartiere, i cortei, le rogne. È
così che perfeziono la mia tecnica, è il trucco che uso per farmi
scivolare addosso la città mentre la attraverso correndo. Corro
senza niente per la testa e sto alla larga da tutto quello che mi
circonda. Do il meglio da solo e quando corro. Ovviamente. Per
cos’altro dovrei correre se non per me stesso?
Caroline
Oh, queste cavolo di unghie non ricrescono. Meglio che un dito
non rimanga incastrato, non dopo l’ultima volta. Sbroglio le chiavi da
sotto il cesto dei vestiti. Ecco dov’erano finite. Mi piazzo il cesto sul
ginocchio e cerco a tastoni la serratura. Niente da fare. Lo metto giù,
meglio va’. Biancheria sporca in bella mostra. Questa porta,
diciamocelo, è sempre stata una stronza.
Alla fine ce la faccio.
Uno strattone in su e uno in dentro. Porta del cazzo.
Tiro su il cesto e trascino la pantofola con il piede. E adesso cos’è
questa puzza di morte, diosanto? Uno crede che d’estate la muffa si
asciughi. No, non certo all’ottavo piano del blocco ovest. Troppa
grazia per un posto così, eh?
Eccomi sulla balconata subito dopo l’ottantaquattro. E il bambino
piange di nuovo, senti là. Meglio darsi una mossa prima che quella
scassacazzi capellona di Varda venga fuori e cominci a lamentarsi
del piccolo. Ottantacinque. Non si vede nemmeno George Docherty.
Di solito se ne sta qua fuori a ciucciarsi quella pipa lurida e mi
squadra. Ottantasei e l’odore di curry, come al solito.
Sollevo il cesto e il piede trova i gradini alla cieca, con cautela.
Vedo solo gli sputi neri e la poltiglia di scontrini agli angoli delle scale
che vanno di sotto. Do un’occhiata giù verso la piazza stando attenta
alla muffa sul corrimano. Non si muove una foglia. I campi sono
vuoti, solo uccelli che frignano e alberi. È ancora presto. Il cortile
nell’oscurità, a mezza strada verso la mattina. Le altalene dei
bambini, gli scivoli argentati intatti nell’ombra. Oh aspetta, guarda.
Dall’altra parte della piazza ci sono quelle lituane, sono quattro,
tornano verso il blocco est. A casa dopo il turno di notte. Ognuna
porta una busta di plastica. Ognuna è sola come me.
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