La Nuda – Il legato dell’ultima tela del Giorgione – Sabina Marineo

SINTESI DEL LIBRO:
Sangue di Giuda!« sibilò Taddeo Contarini cercando tastoni nel
buio la veste da camera.
Lo avevano strappato ad un sogno inquieto, svegliandolo nel
mezzo di quella notte d’inferno. Una tempesta autunnale flagellava
Venezia senza mezzi termini. Il nobile Contarini, in piedi accanto al
letto, si passò le mani sudate sulla faccia, poi tra i capelli. Non
capiva ancora bene dove si trovava: aveva fatto veramente ritorno
nella camera del suo palazzo oppure levitava in un angolo buio
dell’universo onirico, dimenticato dal resto del mondo?
Dal corridoio risuonò una voce: »Messer Contarini!«
Lampi di luce sinistra illuminavano a tratti il cielo notturno, forti
tuoni lo squarciavano. La pioggia cadeva fitta con una violenza
inusitata, come se qualche divinità maligna si divertisse a rovesciare
dal cielo un oceano intero con l’intento di affogare a tradimento
proprio quella città nata dalle acque. Le imposte accostate
sbattevano con violenza contro il muro del palazzo.
Taddeo si avvicinò alla finestra, guardò fuori. Il campo sottostante,
inghiottito dal buio, non era che un mare di fango. L’acqua correva
sulla melma come un ruscello in piena trascinando con sé rifiuti e
carogne di animali. Dal corridoio la voce chiamò ancora, insistente
»Messer Contarini! Siete sveglio? Mi sentite?«
»Son qua, son qua! Un momento, Vergine Santa!« gridò
spazientito Taddeo e si precipitò a piedi nudi, la veste da camera
svolazzante, ad aprire la porta. Si trovò dinanzi la faccia rugosa del
vecchio servo Domenico che attendeva con un doppiere in mano.
»Ser Vendramin e ser Marcello aspettano nello studiolo.«
»Vendramin e Marcello? Nel cuore della notte?« esclamò stupito il
nobiluomo. Doveva trattarsi di un fatto grave, se i due patrizi si erano
decisi ad abbandonare la comodità dei loro letti per uscire in una
tempesta di tale fatta.
Dalla camera vicina giunse il rumore di un vetro che sbatteva.
»Al diavolo!« esclamò Taddeo »bisogna chiudere tutti gli scuri.«
Il nobile fece segno al vecchio di illuminare il corridoio, si allacciò
in fretta la veste da camera. Mentre raggiungeva la porta dello
studiolo percorrendo a piedi scalzi i tappeti e il freddo pavimento di
marmo, vedeva la propria ombra allungarsi accanto a quella ricurva
del servo sulle pareti, tra dipinti e arazzi istoriati, e danzare una
danza macabra spinta dal movimento ondeggiante delle fiammelle.
»Non bastava il terremoto di marzo. E nemmeno il morbo!« si
lamentava intanto il vecchio »Adesso Iddio ci manda anche questa
tempesta. Santa Barbara benedeta, liberame da ‘sta saèta!« e si
fece il segno della croce.
Taddeo non disse nulla, perso nei propri pensieri. Il morbo. La peste.
La nuova epidemia era scoppiata nel mese di maggio e infuriava
ancora spopolando la città. Si considerava l’arrivo dell’inverno come
una benedizione. Il freddo e il cambiamento d’aria avrebbero
allontanato il morbo. Ben volentieri Contarini avrebbe lasciato
Venezia, almeno per un certo periodo. Avrebbe raggiunto la sua
famiglia nella splendida villa di campagna, la moglie Maria, i figli. E
tuttavia, proprio in quell’anno, era entrato a far parte del consiglio dei
pregàdi, una carica impegnativa che interessava i grandi affari della
Repubblica. Azioni di guerra e pace, trattative politiche della
Serenissima, tutto ciò veniva deciso da questi solenni gentiluomini
che erano sempre scelti in base al grado di nobiltà e soprattutto al
peso delle loro borse. Taddeo doveva restare a Venezia. Il magnifico
ser Contarini, detentore di un’immensa fortuna dovuta al commercio
marittimo di panni d’oro e di seta, legname, frumento, nonché al
trasporto di pellegrini in Terra Santa, un autentico Contarini di
Niccolò di Andrea parente del doge e vanto della Serenissima, era il
primo prigioniero della propria ricchezza. Ma Taddeo prendeva le
cose con filosofia. Amava citare quel verso fatalista del Petrarca: La
vita il fine, e’l dì loda la sera. Chi poteva dargli torto? È innegabile
che il valore della vita si riveli soltanto alla fine di essa, così come
quello dell’intera giornata sul far della sera. E infatti la sera
precedente aveva aperto le porte alla violenta tempesta che si
scatenava come un presagio nefasto in quella notte senza
misericordia.
»Vi saluto messeri!« esclamò Contarini spalancando la porta dello
studiolo. Un attimo dopo si accorse che il tono allegro della sua voce
era assolutamente fuori luogo.
Il giovane Gabriele Vendramin, suo cognato, seduto in un angolo
della stanza, lo fissava cupo. Brutto segno, pensò Taddeo. L’amico
Girolamo Marcello, al davanzale della finestra, si voltò di scatto e lo
fulminò attraverso le fessure dei suoi occhi grigi. Altro brutto segno,
pensò Contarini.
»Illustri amici, sono forse sbarcati i Turchi? Oppure è crollato il
campanile di San Marco?« domandò.
»Messer Giorgio da Castelfranco è morto.« disse lapidario
Girolamo »Di peste.«
Taddeo lo fissò esterrefatto »Il Giorgione è morto? E quando?«
»Il morbo è venuto a prenderselo ‘sta notte.«
Taddeo cadde in un silenzio disorientato. Non sapeva che dire,
come sempre gli succedeva nelle circostanze più tristi. Prese ad
accarezzarsi la barba.
Gabriele tirò un lungo sospiro »Sic transit gloria mundi.«
Una raffica di vento spense di colpo tutte le candele e i tre
gentiluomini si ritrovarono precipitati nel mezzo della notte. Nel
chiarore bluastro scintillò un diamante al dito di Gabriele, mentre
raggi di luna restavano imprigionati nella sua zazzera scura. La lama
dello spadino di Girolamo balenò per un istante nel buio. Poi la luna
sparì di nuovo dietro le nuvole e il vento riprese la corsa folle tra i
camini, sui tetti delle case, nelle calli strette. Il sibilo forte,
ininterrotto, si mescolava al rumore ritmico della pioggia. L’odore
penetrante di terriccio bagnato e canali saturi permeava l’aria,
oltrepassava il confine della trifora e si diffondeva nella stanza.
Gabriele raggiunse al davanzale gli amici. Le tre ombre dei nobili
erano adesso vicine, si confondevano in una macchia più cupa,
incorniciate dagli archi della finestra.
»Messer Giorgio« disse Gabriele »è morto troppo presto. E noi,
che siamo ancora in vita, non sentiremo più la sua musica, né ci
rallegreremo di sue opere future. Ci ha lasciati un grande maestro.
Lo vedete: gli elementi scagliano sulla città l’ira divina. Questa
tempesta è la risposta della natura alla morte del Giorgione.«
Un tonfo sordo e un grido soffocato provenienti dal piano di sotto
interruppero le riflessioni del nobile. Gabriele e Girolamo si fissarono
allarmati, la mano di ser Marcello raggiunse subito l’impugnatura
dello spadino »Che è stato?« esclamò.
»Ah, niente cari amici, tranquillizzatevi.« fece Taddeo »Questa è
sicuramente l’Oria.«
Così dicendo, si avviò alla porta dello studiolo, l’aprì, uscì nel
corridoio, si mise in ascolto, e poi ritornò nella stanza come se niente
fosse.
»Cos’è accaduto?« domandò Gabriele.
Taddeo alzò le spalle »L’Oria, la mia serva, si era fermata come di
consueto dietro la porta ad origliare e poi, mentre scendeva le scale
nel buio, è inciampata e ha fatto gli ultimi gradini con il preterito,
anziché con i piedi.«
Il biondo Girolamo scoppiò a ridere divertito »Origlia sempre?«
chiese.
»Sempre.« rispose Taddeo »Ma inciampa solo qualche volta,
solitamente la notte.«
»Siete troppo buono. Io le avrei messo la testa a posto a suon di
bastonate. Con i servi si usa il bastone.«
»E che volete? Tutti i servi hanno i loro difetti. In compenso l’Oria è
pulita e sa cucinare come nessun altro al mondo, ve l’assicuro.
Inoltre devo aggiungere che tutto quello che la mia serva viene ad
apprendere qui, non oltrepassa i muri della mia dimora. Lo so per
certo. E dunque si può ben dire che l’Oria sia una persona fidata.«
»Fidata? Scusate, io non capisco. Se non racconta ai quattro venti
le notizie che apprende durante le sue sedute dietro la vostra
serratura, allora per qual motivo origlia?«
»Per essere informata. Ma soltanto le informazioni che l’Oria viene
ad apprendere nei palazzi altrui giungono in questa casa, non
viceversa. L’ho messa più volte alla prova.« sorrise Taddeo
soddisfatto.
Nel frattempo Gabriele aveva ripreso a contemplare il furore della
tempesta oltre la trifora, quel cielo inquieto in cui le nuvole
passavano davanti alla luna occultandola e rivelandola, in un gioco
di raggi d’argento. »Mi par proprio che sia la fine del mondo.«
sospirò.
»Ser Gabriele ed io siamo già pronti.« disse Girolamo a Taddeo
Contarini »Partiremo sul far del giorno. La fine improvvisa di messer
Giorgio mi ha definitivamente convinto ad andarmene per un po’.«
»Mia sorella Maria, la vostra amata consorte,« si affrettò ad
aggiungere Gabriele »si rallegrerebbe alquanto di vedervi in villa, ser
Taddeo. Allo stesso modo i vostri figlioli.«
Contarini scosse la testa »Sapete bene che in questo momento
non è possibile, cognato. Devo restare. Ma non datevi pensiero,
sono di salute robusta e ho già superato altre epidemie. In fede mia
e con l’aiuto di Dio, penso di essere ormai immune al morbo.«
»Tutto il mondo è sottosopra.« riprese Gabriele »Voi conoscete il
vecchio maestro Giacomo, quell’orefice di Rivoalto. Ebbene, l’altra
sera è stato linciato da una marmaglia inferocita in mezzo alla strada
proprio mentre chiudeva bottega. Qualcuno l’aveva accusato di
essere un untore!«
Girolamo scoppiò a ridere »E ve ne meravigliate, amico? Ser
Giacomo è ebreo e per giunta misantropo. È chiaro che la plebaglia
se la sia presa con lui.«
»Sarà come dite,« ribattè il nobile Vendramin »ma intanto l’hanno
ammazzato. E poi i soliti sciacalli hanno terminato l’opera rubando
tutto quello che si trovava nella bottega. I signori di notte sono
arrivati troppo tardi.«
»A me dispiace per la figlia. Una femmina di rara bellezza e
notevoli attributi.« sentenziò Girolamo cinico completando
l’osservazione con un gesto poco rispettoso.
Taddeo rise »Amici, beviamo del vino!« esclamò.
Poi, prima che qualcuno avesse il tempo di replicare, si diresse
energicamente alla porta, l’aprì e gridò nel corridoio »Oria!
Domenico! Malvasia e boccali!«
I tre uomini si sedettero al poderoso tavolo da lavoro che
dominava la stanza come una galea disarmata. Per alcuni istanti il
silenzio tornò ad avviluppare lo studiolo e i patrizi scivolarono,
malgrado i buoni propositi e le frasi sprezzanti, in un sottile vortice
d’inquietudine. Combattevano tacitamente contro la paura della
morte che gli seccava la gola. Si accorgevano che ogni loro frase
non era che uno scongiuro disperato. Ma lo tennero per sé.
Il barbuto Taddeo Contarini sedeva a capotavola come un
patriarca. Furbo e intrigante, era anche il più autorevole. In città lo
chiamavano tutti il Ricco. Il biondo Girolamo Marcello, amante delle
armi e del passato, si era fatto ritrarre dall’amico Giorgione in
corazza da guerriero e si vantava di discendere dalla romana gens
Iulia. Il sensibile Gabriele Vendramin, ancora ventenne, si
appassionava sommamente per la pittura e le lettere. Tutti e tre
amavano l’arte e il sapere. Ma nessuno di loro avrebbe potuto
concedersi il lusso di dedicarsi a questi soli svaghi. Il commercio
marittimo era la prima condizione necessaria alla loro vita.
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