La guerra dei nostri nonni – 1915-1918: storie di uomini, donne, famiglie – Aldo Cazzullo

SINTESI DEL LIBRO:
Rammento una dolorosa teoria di fanti, pallidi e disfatti, portati a braccia coi
piedi congelati giù dal Pasubio. Li avrei rivisti qualche mese più tardi, con gli
arti amputati, nel grande ospedale chirurgico della Baggina in Milano dove io
stesso venivo ricoverato…»
Gli austriaci attaccano da nord. Siamo nel momento decisivo della
Strafexpedition, la spedizione punitiva che il nemico ha sferrato dal Trentino
nella primavera 1916, a un anno dall’ingresso dell’Italia in guerra. L’obiettivo
è sfondare le difese sul Pasubio e sull’altopiano di Asiago, dilagare nella
pianura veneta, prendere alle spalle le armate dell’Isonzo e del Carso e
mettere fuori combattimento i traditori italiani. La visione spettrale dei fanti
portati a braccia giù dal Pasubio si deve al diario di guerra di un ufficiale,
Tullio Urangia Tazzoli.
Il 27 maggio 1916 il capitano Urangia Tazzoli fu promosso maggiore.
Motivazione ufficiale: il coraggio dimostrato nei combattimenti in Val
Cismon. Ma c’è un’altra motivazione, non detta: quasi tutti gli ufficiali del 2° e
del 12° reggimento bersaglieri sono morti, compresi i colonnelli De Negri e
Durando. Tullio Urangia Tazzoli è messo alla testa di un battaglione di
rincalzo della brigata Roma.
Il piano del nemico sta per realizzarsi. Gli austriaci già vedono, dalle
ultime cime, Vicenza e la grande pianura che a est arriva a Venezia e a ovest a
Milano.
Scrive il maggiore: «Il Col Santo, antemurale del Pasubio, pilastro del
nostro sistema difensivo, è caduto. Nella notte di questa partenza forse verso
la gloria e la morte che ci attendono, attacchi vengono sferrati dal nemico e
respinti dai nostri in valle Posina, passo Buole, Pasubio. Passo Buole,
Termopili d’Italia!». Nel battaglione ci sono «alcuni volontari e giovanissimi
come il sottotenente Silvio Cabianca, che ho rimproverato perché giunto in
ritardo questa mattina alla stazione».
Il sottotenente Cabianca è venuto con il padre, che lo riempie di consigli e
raccomandazioni. Lui lo congeda così: «Papà sta tranquillo. Tu non avrai che
a lodarti di tuo figlio soldato». Annota Urangia Tazzoli: «Sacra promessa che
egli mantenne col sacrificio della propria vita».
Si sale verso il fronte. «Romba continuamente il cannone. Si sente il
nemico vicino. Col vento fresco dell’alba, nell’umidore dei boschi all’intorno,
sale odore di morte, a ondate, dal fondo valle. Erano i morti insepolti, o male
sepolti, della VII e della IX compagnia. Odore di morte, odore di cadavere,
che tutti ci prese penetrandoci nelle ossa, nel sangue.»
Nel camminamento che sale verso le trincee il maggiore incontra il
colonnello Scotti. Si sono conosciuti anni prima a Ivrea, una domenica di
maggio, in una pausa della scuola di guerra. Insieme ricordano la sera in cui
Scotti aveva recitato un passo del Cyrano di Bergerac, per fare colpo sulle
ragazze in vacanza all’Albergo della Corona. Urangia Tazzoli ha un’idea:
«Scotti, recitami un’altra volta il Bacio di Rossana. Vuoi?».
Il colonnello comincia a sussurrare: «Ma poi che cos’è un bacio? Un
giuramento fatto poco più da presso, un più preciso patto, una confessione
che sigillar si vuole, un apostrofo rosa messo tra le parole “T’amo”; un segreto
detto sulla bocca, un istante d’infinito che ha il fruscio d’un’ape tra le piante,
una comunione che ha gusto di fiore, un mezzo di potersi respirare un po’ il
cuore e assaporarsi l’anima a fior di labbra…».
I fanti escono dalle trincee e arrivano a uno a uno, incuriositi, increduli,
per ascoltare anche loro.
Nel primo scontro, il battaglione perde 157 soldati su 657 e 9 ufficiali su
14. Quando cala la sera, il maggiore guida il recupero dei feriti e dei cadaveri.
Quasi tutti sono soldati siciliani e calabresi. Molti hanno in tasca lettere
ricevute da casa. Una madre ha scritto al figlio: «Mi piace di sentire che sei
così sperto e leale e che ti vanti e vuoi andare avanti fino a che puoi perché
vincano gli italiani. Ricordati però di non arrabiarti mai, di non bestemmiare,
di dire ogni sera un’Ave Maria, e di portare questa medaglieta che tua madre
vecchia ti offriva». Annota il maggiore: «Poi c’è una lettera di una moglie: essa
narra tutti i fatterelli di casa e del vicinato, i piccoli dolori, gli incidenti e le
gioie quotidiane e benedice il marito combattente per la Patria. Trovo una
lettera di un bimbo che scrive al padre con grandi scarabocchi significativi,
affettuosissimi».
Il linguaggio del diario di guerra di Urangia Tazzoli è a volte aulico.
Diventa duro e secco quando parla dei giornalisti. Quando incrocia «il signor
D.B., corrispondente del Giornale d’Italia», lo aggredisce: «Credono forse essi
con quelle fugacissime apparizioni di poter onestamente e sinceramente
illuminare l’opinione pubblica, mentre tante famiglie vivono in un’ansietà
dolorosa, fabbricando e stampando descrizioni di azioni non mai viste, di
località non mai conosciute?». Il giornalista protesta, risentito con il
maggiore, che però tiene il punto: «Accenno all’attacco del Parmesan in
Vallarsa, descritto dal corrispondente del Corriere della Sera ampiamente e
con dovizia di particolari. “Immagini lei – dico – che proprio per una strana
combinazione, in una farmacia di Verona parlandone col proprietario, mi
accorse di sapere che quel tale corrispondente era suo nipote e che l’articolo
l’aveva proprio scritto in farmacia: mi fu indicato anche il tavolino sul quale
lavorò!”».
La salita al Pasubio di Tullio Urangia Tazzoli è una scena da inferno
dantesco. «Notte tragica che mai dimenticherò! Camminiamo molto
lentamente, io, il tenente e la guida, su un terreno coperto di morti, di feriti e
di moribondi che inavvertitamente urtiamo al nostro passaggio. Gemiti
continui nella notte buia. Preghiere di aiuto che stringono il cuore. Non
sappiamo dove mettere i piedi senza urtare qualcuno che geme. E non poter
fermarsi, non poter soccorrere… che strazio! Finalmente da lungi ci appare
un lume fioco. “Ci siamo”, dice la guida, “quella è la baracchetta del comando
della brigata Verona.”»
Dentro c’è il generale Roversi, «l’animatore della difesa di quelle giornate
memorabili». È ferito, la testa fasciata sporca di sangue. Pallidissimo, non
dorme da 48 ore. Comunica a Urangia Tazzoli la destinazione del suo reparto,
la Cima Palon del Pasubio: «È forse la località più contrastata, quindi la
sistemazione a difesa è stata completamente sconvolta e distrutta. È una
posizione di somma importanza: l’affido a lei e ai suoi. Non aspetti rinforzi.
Ella sia deciso a mantenerla a prezzo di qualunque sacrificio. Se necessario,
bisogna morire sul posto». Il generale e il maggiore si stringono la mano.
Salendo nella notte verso la postazione, Urangia Tazzoli annota:
«Intravedo alla mia destra una piramide fatta di terra e di cadaveri: al di
sopra, sinistramente, sporge una testa di morto. Mi dice la guida: “Questo è il
posto di comando del reggimento. Un grosso calibro lo prese ieri in pieno
compiendo tanta orrenda carneficina”».
L’ultima pagina del diario è datata 3 luglio, ore 10. «I miei ufficiali e soldati
dormono stanchissimi sulle petraie, come possono, con un sasso e la coperta
da campo per cuscino. C’è qualcuno che scherza e ride col compagno mentre
addenta avidamente la pagnotta e la carne della scatoletta che ha levato dal
tascapane. Il sole caldo riempie di luci e di colori le balze già tanto tormentate.
Ovunque un silenzio alto. Solo, dappresso, un piccolo rio di acqua cristallina
sembra chiacchieri sommesso ed irrida forse a tante miserie umane fluendo
lentamente a valle con ritmo e senza posa… E io sento in me, al cospetto di
tanti eroismi, al di sopra dell’umano dolore, la mente e il cuore assurgere,
naturalmente, alla confezione vivissima e prepotente della fratellanza umana.
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