La fratellanza dell’impero – Jack Whyte

SINTESI DEL LIBRO:
Il terzo e ultimo carro avanzava lentamente, il rumore delle ruote
borchiate in ferro perso nella furia della pioggia, inghiottito dal
sibilante ruggito dell’acqua che scrosciava nel vento. Quando il carro
lo superò, l’uomo accovacciato nel fossato frondoso lungo il ciglio
della strada si sollevò lentamente, appoggiando il peso su una
gamba piegata per opporsi alla forza del torrente che gli inondava le
gambe. Rimase a osservare finché il carro non scomparve alla sua
vista giù per la discesa e oltre una curva alla sua destra, seguendo
la strada acciottolata che avvolgeva il ripido fianco della collina; si
abbassò il cappuccio fradicio del mantello sul volto per poi avviarsi di
corsa verso l’infido pendio alla sua sinistra, dove altri cinque uomini
lo stavano aspettando.
I tre carri, stretti tra due pendii quasi verticali su entrambi i lati,
avrebbero percorso la lunga strada che risaliva la collina per
raggiungere infine quello stesso punto, e quando fossero arrivati,
ognuno dei sei uomini a bordo di essi sarebbe morto ancora prima di
rendersi conto di essere sotto attacco.
La pioggia battente avrebbe aiutato, pensò il ricognitore mentre
scivolava giù per il fianco scosceso, barcollando di albero in albero e
sorreggendosi ai loro bassi rami per non cadere. Non ricordava
quando fosse l’ultima volta che aveva visto una tempesta selvaggia
come quella in corso, e sebbene fosse maledettamente fastidiosa,
dava a lui e ai suoi uomini un vantaggio sui poveri stolti a bordo dei
carri. Quelli, a causa dell’oscurità della strada coperta dagli alberi,
della tempesta del tardo pomeriggio e del soverchiante ruggito della
pioggia battente, non sarebbero riusciti né a sentire né a vedere quel
che succedeva a un palmo dal loro naso. Alla base della ripida
discesa avrebbero trovato un albero caduto a bloccare loro la strada,
e se avessero tentato di scendere dai carri per spostarlo sarebbero
morti, probabilmente senza nemmeno accorgersi degli uomini
nascosti tra gli alberi armati di giavellotti. Sarebbe avvenuto tutto in
un battibaleno, e quando qualcuno avesse rinvenuto i cadaveri, lui e
i suoi sarebbero stati ormai a miglia di distanza.
C’erano solo due carri quando lui e i suoi uomini si erano fermati
per abbeverare i loro cavalli, intorno a mezzodì, presso la taverna
della stazione di posta non distante dall’incrocio tra la strada che da
Lindinis porta a nord e quella che da Durnovaria si dirige a est. Li
aveva notati appena era arrivato, e aveva mandato uno dei suoi a
indagare con disinvoltura per capire cosa contenessero. Il suo
compagno era riuscito soltanto a scorgere un grosso e pesante
forziere rinforzato in ferro, nascosto senza troppa cura sotto uno
spesso telo, ma tanto era bastato. Gli occupanti dei carri, ignari di
qualsiasi pericolo, si erano seduti al tavolo davanti all’entrata
principale della stazione di posta, cibandosi di qualsiasi cosa la
locanda avesse in vendita. Erano quattro uomini, con indosso
semplici tuniche tessute in casa e mantelli dotati di cappucci; uomini
normali e insignificanti che non sembravano nemmeno in grado di
distinguere una punta di spada dall’altra. I ricognitori avevano preso
nota e si erano scambiati un sorriso complice. Avevano atteso finché
i carri non avevano imboccato la strada verso sud, e quando erano
stati certi della destinazione delle loro vittime, non potevano esserci
dubbi riguardo al luogo migliore per l’imboscata. La cittadina di Isca,
l’unico posto in cui gli occupanti dei carri e il loro carico potevano
essere diretti, si trovava a poco più di trenta miglia in direzione sudovest, e i malviventi conoscevano il punto lungo la strada che meglio
si prestava a rapine e assalti nei confronti di passanti ignari.
La pioggia battente era iniziata poco dopo che i carri avevano
lasciato la locanda, e il fatto che per coincidenza le loro vittime
fossero state raggiunte durante la tempesta da un terzo carro,
anch’esso guidato da due uomini, era solo un incentivo inaspettato.
Nessuno sapeva cosa contenesse il nuovo carro, e a nessuno
importava. Qualsiasi fosse il suo carico, avrebbe avuto dei nuovi
proprietari prima di raggiungere Isca.
Isca era la cittadina presidiata più a sud-ovest della Britannia, alla
fine della quale si trovava il tratto notoriamente peggiore di tutta la
provincia, sulla penisola nota come Cornua, il Corno, che i locali
sbagliavano a pronunciare e chiamavano Cornovaglia. All’inizio della
conquista dell’isola, centinaia di anni prima, il terreno di quell’area
aveva messo a dura prova i migliori ingegneri stradali di Roma. Poi
la capitale, in tutta la sua imperiale saggezza, aveva deciso che la
penisola era troppo isolata e selvatica per giustificare gli sforzi e le
spese di una campagna di pacificazione. Cornua, stabilirono, non
aveva nulla che Roma desiderasse, e così la strada era rimasta
incompiuta, e la Cornovaglia stessa aveva vissuto praticamente
indisturbata per duecento anni, sin dai tempi dell’imperatore Claudio.
Si diceva che il tratto di strada di cinque miglia che portava fino a
Isca fosse stato quasi impossibile da costruire a causa della
conformazione del terreno. Il suolo sul quale si snodava era
incredibilmente frastagliato; talmente in pezzi, lacerato e frantumato
che era praticamente invalicabile in certi punti, solcato in altri da
fiumi e torrenti dai corsi rapidi, stranamente frammezzati da paludi e
laghi. Ed era impossibile edificare sul terreno roccioso della regione,
friabile e inaffidabile, incapace di sostenere viadotti o strutture
permanenti di qualsiasi sorta. La strada che gli ingegneri avevano
costruito in quella regione era stata costretta a obbedire alle
imposizioni dettate dal terreno, piuttosto che seguire il dritto e
impeccabile orientamento tipico dell’iter romano.
A circa tre quarti di miglio dal termine del tratto più malconcio,
alla base di una ripida discesa che avvolgeva la collina passando
per una galleria di antichi alberi che adombravano la strada da più di
cento anni, c’era una radura con una caverna che per secoli era
stata usata come rifugio dai viaggiatori e come luogo di raduno da
ladri e briganti. Da circa un decennio la radura veniva pattugliata
dalla guarnigione di Isca, ma ormai non vi si verificavano furti da
circa tre anni, e così di recente le pattuglie erano state rimosse.
Il ricognitore del fossato era diretto proprio lì.
Sopra di lui, lungo una stretta curva che si snodava lungo il
fianco della collina, un uomo di nome Marco Licinio Catone sedeva
sul lato del passeggero della panca, a bordo del terzo carro; i suoi
occhi socchiusi osservavano il ciglio della strada acciottolata alla sua
sinistra mentre svaniva sotto le ruote del carro. Le ruote posteriori
del carro sdrucciolavano sulle pietre bagnate, minacciando di far
sbandare il mezzo dalla parte opposta della stradina. Lo slittamento
laterale del carro costringeva i cavalli ad avanzare in modo buffo per
trainare il carico legato ai loro dorsi.
La discesa era più ripida di qualsiasi altra Catone avesse mai
visto, persino più scoscesa di quelle tra le montagne del Nord, e fu
grato del fatto che la stradina serpeggiasse lungo il fianco della
collina. Senza tutte quelle curve e tornanti, se la discesa fosse stata
più ripida e dritta, sarebbe stato impossibile controllare il carro. Sotto
il diluvio in corso, quella strada era ostica da percorrere e
potenzialmente letale.
Osservando i ciottoli che svanivano sotto il carro, Catone si
accorse che quel tratto sarebbe stato pericoloso persino senza
pioggia. Alzò lo sguardo, in cerca di uno spiraglio di luce nel cielo,
ma capì subito che sarebbe stato ingenuo illudersi. La pioggia
scrosciava su di loro da più di un’ora ormai, e ogni qualvolta aveva
pensato che non potesse continuare così ancora a lungo, gli era
sembrato che il diluvio si intensificasse. E in quel particolare tratto di
strada, il frastuono era assordante. Gli alberi a foglie larghe su
entrambi i lati, platani e olmi e castagni e querce, erano enormi. Le
loro chiome pendevano sulla strada a formare una sorta di galleria, e
la pioggia battente scrosciava senza sosta sulle foglie, dalle quali poi
sgocciolava sulla copertura curva in pelle del carro, creando un
rumore simile al tuono di mille percussionisti impazziti.
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